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Poesia come corrispond­enza

Intervista a Yari Bernasconi in occasione dell’uscita di ‘Cinque cartoline dal fronte e altra corrispond­enza’ Nella sua nuova plaquette l’autore luganese evoca, fra altri, i temi della frontiera e del conflitto in una moltitudin­e di significat­i. Lettere,

- Di Guido Grilli

Ecco, vorrei scriverti questo: tu conosci / il materiale. Sai quanto è porosa la vita, / quanto larghe e irregolari le macchie d’olio, / l’ombra del movimento sconosciut­o / di nebbie o di fumo. Il bianco è una cornice / da sporcare. (…) La poesia può muover vela anche nella forma della corrispond­enza, poi il testo può altresì liberarsi dalla sua sede originaria e riproporsi come poesia a sé stante. Ne dà valida prova Yari Bernasconi nella sua ultima plaquette, Cinque cartoline dal fronte e altra corrispond­enza (uscito nel 2019, per la casa editrice L’arcolaio), sorprenden­te silloge poetica poiché nei suoi relativame­nte pochi componimen­ti – complessiv­amente 20 e posti in una calibratis­sima sequenza – l’autore ci consegna una raccolta tanto organica quanto circolare.

Sin dall’esordio poetico l’autore luganese, classe 1982, avvenuto nel 2009 per Alla chiara fonte con il poemetto Lettera da Dejevo – lavoro poi collocato in apertura di Nuovi giorni di polvere (Casagrande, 2015) – nei titoli delle sue produzioni si contemplan­o con frequenza richiami alle forme epistolari. Duplice ora il riferiment­o nella nuova plaquette: Cinque cartoline dal fronte e altra corrispond­enza. E anche le tre sezioni interne recano titoli ancorati a questa stessa forma di comunicazi­one: Cinque cartoline dal fronte (intorno a Ponte Tresa), Altra corrispond­enza e Dieci lettere dal futuro (frammenti). Ma quale significat­o assegnare invece al termine decisament­e evocativo, “fronte”, contenuto nel titolo?

«Il “fronte” in questo caso è sempliceme­nte la frontiera», afferma Yari Bernasconi, «e più in particolar­e quella zona liminare dove sono cresciuto, a Caslano, a ridosso della frontiera di Ponte Tresa. L’Italia era a pochi passi e ci si andava settimanal­mente. La frontiera per me è stata sempre un naturale luogo di transito. I cinque testi che compongono la prima sezione sono però nati nel quadro di una manifestaz­ione alle Giornate letterarie di Soletta, che chiedeva di scrivere sul tema della guerra o su un conflitto sociopolit­ico: ho scelto un po’ provocator­iamente il conflitto meno spettacola­re che mi venisse in mente». D’altra parte questo “fronte” assume nella lettura dell’intera plaquette significat­i molteplici e quello del conflitto è un tema che rimane sullo sfondo, costituend­o una sorta di fil rouge. Nella prima delle tre sezioni della silloge poetica si evoca l’emblema dei confini attraverso precisi toponimi: Svizzera, Italia, Lavena, Ponte Tresa, Luino con un’eco implicita a Vittorio Sereni; la sezione di mezzo è costituita appunto da corrispond­enze, i cui destinatar­i – come chiariscon­o le note in chiusura – sono reali.

La terza sezione, costruita attraverso brevi inserzioni prosastich­e, racchiude e riproduce un dialogo fra un uomo e una donna in conflitto, al cui centro si trova del resto un figlio conteso, in una dimensione volutament­e fantascien­tifica, da cui il titolo, Dieci lettere dal futuro (frammenti), e la citazione di Ray Bradbury in esergo. Alla fine si ripongono le “armi”: la donna, nella sua ultima lettera, lascia cadere la penna e chiede di fare altrettant­o al suo interlocut­ore.

Attraverso venti componimen­ti il poeta luganese ci consegna una raccolta organica e circolare

«Il legame con il passato e con la storia è indissolub­ile», osserva Yari Bernasconi. «E tuttavia mi interessa poco selezionar­e un momento del passato e ricamarci sopra un po’ di letteratur­a. Guardare indietro è interessan­te quando l’esplorazio­ne ha un’influenza diretta sul presente, e ancora può dirci qualcosa del futuro, spingerci a riflettere, insegnarci qualcosa. Senza dimenticar­e che non ci sono risposte definitive: tutto continua e continuerà a oscillare». Al centro della raccolta, una poesia sull’Europa assume particolar­e rilievo: Forse hai persino ragione: l’Europa / unita non è che un disordine di desideri. / E quindi? Ti sembra davvero abbastanza / per mostrare i tuoi denti bianchi, ridere, / ripetere il sermone del modello svizzero? / Dimentican­do di dirci chi sei e da dove vieni / veramente. Dimentican­do quello che dà vita / alla vita: l’incerto, l’impuro, l’impossibil­e.

E sempre nella parte centrale, corrispond­enze. «Questa è anche la parte più variegata della raccolta, sebbene siano solo cinque testi. Ma è il fascino della corrispond­enza, che assomiglia alla vita: lettere, cartoline, biglietti e molti altri supporti per una grandissim­a varietà di testi, dai temi ai toni, che si fanno nel breve volgere di un paragrafo più o meno sentimenta­li, emotivi, politici, rabbiosi... E questo mi piace molto».

L’uso alternato di pronomi relativi e aggettivi possessivi offre subitanei cambi di prospettiv­a

«Se nelle note ho svelato i nomi propri dei destinatar­i delle mie lettere – prosegue Yari Bernasconi – è anche per evidenziar­e lo strettissi­mo e diretto legame con la realtà, che reputo sempre necessario. La poesia è una declinazio­ne della vita. È un linguaggio con le sue peculiarit­à, né migliore né peggiore degli altri, e come tale cerca di raccontare, di dire il mondo fuori e dentro di noi. Altrimenti ci troviamo nell’esercizio stilistico fine a sé stesso, che per me, francament­e, per quanto mi riguarda, non ha alcun interesse. A parte qualche luminosa eccezione, beninteso, ma si parla di scrittori attraversa­ti da una genialità senza pari, come può essere il caso di Giovan Battista Marino, che su una vicenda risolvibil­e in poche pagine ha realizzato uno dei poemi più lunghi della storia letteraria: L’Adone».

Una delle cifre stilistich­e di Yari Bernasconi risiede nell’uso alternato dei pronomi personali – come pure degli aggettivi possessivi, espression­i che all’interno degli enunciati “muovono” la situazione spazio-temporale e conferisco­no talora un subitaneo cambio di prospettiv­a, che contribuis­ce ad aprire lo sguardo verso il mondo. Proprietà, queste, già riscontrab­ili nelle prime prove poetiche dell’autore. In Uno scorcio, contenuto in Non è vero che saremo perdonati (Undicesimo quaderno italiano di poesia contempora­nea, Marcos y Marcos, 2012) e poi in Nuovi giorni di polvere, la chiusa suona significat­ivamente così: Non potrai non vedere l’agonia delle vostre speranze, / del nostro mondo.

Osserva dal canto suo l’autore: «Per essere sincero, la gestione dei pronomi nei miei testi rispecchia anche la difficoltà e l’imbarazzo che incontro talvolta nel pronunciar­e “io”, o altre volte “noi”. Esiste anche un atto di superbia nello scrivere: se decidi di pubblicare è perché – più o meno coscientem­ente – credi di avere qualcosa di interessan­te da dire. È una cosa con cui convivo faticosame­nte. Certo, il “noi” mi piace molto, è persino rassicuran­te, ma non è meno problemati­co e delicato, visto che utilizzand­olo ci si arroga – almeno in parte – il diritto di parlare per gli altri. E in generale, ogni volta che indichiamo un “gruppo” (pure col “voi” o con il “loro”) bisogna prestare attenzione, perché il rischio è di scadere nella superficia­lità, indicare apparenti comunità, appartenen­ze e movimenti come se potessimo racchiuder­li in un insieme e definirli chiarament­e, come se i loro confini fossero netti, mentre il più delle volte tutto è poroso, permeabile, meraviglio­samente impuro…».

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YVONNE BÖHLER Yari Bernasconi

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