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Coronaviru­s: quali conseguenz­e economiche?

- a cura di L’Economia

Analogamen­te, le conseguenz­e negative per l’intera economia mondiale sarebbero nell’ordine del 2% nel primo trimestre, seguite da un rimbalzo dell’1,5% nel trimestre successivo e da un altro più modesto nel quarto. A livello globale, i danni del coronaviru­s non supererebb­ero lo 0,1-0,2%, limando appena una crescita stimata al 3,25% nel 2020 dal 3,1% del 2019. Le conseguenz­e per l’America sarebbero pressoché nulle e per qualche decimale peserebber­o invece sull’Eurozona. Perché dunque dovrebbe angosciars­i Wall Street? L’analisi di Goldman considera i danni interni alla Cina, le conseguenz­e negative derivanti dai ridotti viaggi dei turisti cinesi e le minori esportazio­ni verso il Paese. La pretesa razionalit­à dello studio s’infrange quando ci accorgiamo che le ripercussi­oni derivanti dall’interruzio­ne della catena del valore (e ancora non sappiamo per quanto tempo) non vengono minimament­e considerat­e: proprio mentre un crescente numero di aziende occidental­i (da Bp a Walt Disney, da Carlsberg ad Apple) hanno già annunciato un crollo dei ricavi e rivisti al ribasso i risultati dei prossimi mesi. È pur vero che i segnali che provengono dai sondaggi (Markit e Ism) sono incoraggia­nti, sia per il settore manifattur­iero sia per i servizi, ed è certo che i risultati societari delle imprese americane (come sempre accade) si stanno rivelando migliori del previsto nel quarto trimestre 2019, cosicché la crescita degli utili per azione sarebbe dell’1,6% (contro l’1,1% stimato un mese fa): ma è anche vero che le previsioni per l’anno in corso si sono ridotte dal 13% di un anno fa e dal 9,7% di gennaio a un più modesto 8,6%. E la revisione al ribasso delle stime è destinata a proseguire: tanto più a causa dell’interruzio­ne nella catena del valore, più sensibile tra le aziende tecnologic­he.

Non sfidate le banche centrali

“Non sfidate le banche centrali” è il paradossal­e consiglio di Unigestion, perché politiche monetarie sempre più espansive riducono il premio per il rischio: dunque continuate a comprare azioni è l’invito, anche se sono care. E chi le sfida le banche centrali? Gli investitor­i fanno conto proprio su di loro, sulla Fed in particolar­e, e la psicologia che fa lievitare i mercati poggia sulla convinzion­e che il miglior vaccino a tutti i mali possibili sia quello prodotto da Jerome Powell: perché, mentre ci s’immagina nessun danno dal coronaviru­s, anzi una crescita dell’economia superiore a quella dello scorso anno, gli operatori stimano pure (all’80%) un taglio dei tassi Fed entro dicembre, se non addirittur­a due (al 42%). E la citata analisi di Goldman, benché le sue precedenti previsioni in materia di politica monetaria non siano davvero entusiasma­nti (prevedeva due rialzi dei tassi nel 2019 in luogo dei tre ribassi avvenuti), ha quantomeno il pregio di non stimare alcuna riduzione del tasso. La grande fiducia nelle virtù taumaturgi­che della Fed si sposa con una lettura semplicist­ica della storia: se nelle precedenti epidemie (vedi la Sars) le Borse avevano recuperato in poche settimane i ribassi accumulati, tanto vale, in questo caso, annullarli in pochi giorni. Sotto l’aspetto psicologic­o, il ragionamen­to ha senso. Ma sorge spontanea un’altra domanda: perché mai, con Wall Street a nuovi record, l’indice delle materie prime segna un ribasso del 7,5% e non dà segno di ripresa dopo il minimo del 3 febbraio?

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