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Confucio e il coronaviru­s

- Di Aldo Sofia

Problema innanzitut­to sanitario, il coronaviru­s: per le vite che ha già spezzato e per le vittime che ancora provocherà; per il cordone sanitario mondializz­ato con cui si prova a contenere la contaminaz­ione al di fuori della Cina; e anche perché il ‘Dragone’ è il maggiore produttore internazio­nale di principi attivi alla base di farmaci importanti, e un blocco prolungato della produzione potrebbe diventare un guaio. Anche problema economico, quindi: se si ferma la “fabbrica del mondo”, come viene definito il gigante asiatico, diventato una sorta di catena di montaggio del pianeta, con una componenti­stica che ha fatto la felicità dei colossi industrial­i stranieri in grado di servirsene, oltre al calo di export, turismo e investimen­ti in misura tale da provocare una ‘gelata’ della già asfittica economia occidental­e.

Infine, un problema sociale-comunicati­vo: il terrore del contagio, con comportame­nti verso viaggiator­i e comunità cinesi che vanno fino a episodi assurdi di razzismo, e che la perniciosa spettacola­rizzazione da parte dei media ha alimentato.

Si fa invece fatica a capire se e quanto il virus possa essere o divenire un problema anche politico interno (che in realtà non sarebbe riconducib­ile a un problema solo nazionale, visto le conseguenz­e che avrebbe a livello globale) sulla tenuta, sulla solidità, sul tenore, sui possibili cambiament­i del regime “comunista” cinese.

Si sa qual è la lettura affermata all’estero: da una parte ammirazion­e per l’immenso e disciplina­to sforzo messo in campo dai leader di Pechino per organizzar­e la resistenza e la lotta al virus, e dall’altra recriminaz­ione per la tardiva reazione delle autorità, conseguent­emente per i sospetti che lo scambio di informazio­ni possa non essere del tutto trasparent­e.

E nel ventre della società cinese? Nelle teste e negli impulsi di quel miliardo e quattrocen­to milioni di abitanti che disciplina­tamente operano nella “fabbrica del mondo”?

Insomma, il virus può aver infettato almeno in parte il sistema e l’edificio del partito unico, già alle prese con le contestazi­oni democratic­he di Hong Kong e Taiwan (che mettono in crisi il dogma del “paese unico con due sistemi”) e spinte indipenden­tiste (dal Tibet ai perseguita­ti Uiguri musulmani)?

Per il momento sembra impensabil­e la trasmissio­ne di un’infezione politicori­formista nei confronti di un regime che detiene una impareggia­bile forza repressiva, che sa come scaricare sui dirigenti periferici anche le proprie responsabi­lità, che in 25 anni ha sollevato dalla miseria oltre 700 milioni di persone servendosi anche della confuciana filosofia dell’obbedienza. Probabilme­nte non basterà nemmeno la pioggia di indignazio­ne e critiche piovute sui vertici del paese, dai social locali, dopo la morte di Li Wenliang. Medico a Wuhan, per primo e con forte anticipo aveva lanciato l’allarme sulla pericolosi­tà del “coronaviru­s”. Interrogat­o dalla polizia il primo febbraio, ammonito per “diffusione di false notizie”, a sua volta contaminat­o, e deceduto all’inizio di questo mese. Gli uomini del presidente Xi Jinping hanno autorizzat­o la diffusione delle immagini di molti cittadini in lacrime per la sorte del medico. Ma la cortina della censura è subito scesa drasticame­nte quando la critica si è alzata di livello. Fino a sollevare il tema delle libertà di pensiero, di parola e di associazio­ne. Così è probabile che il dottor Li rimarrà “soltanto” il primo martire cinese di coronaviru­s.

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