Madrid premia Bruno Monguzzi
Un premio, ci spiega il grafico originario di Chiasso, che vuole lanciare un messaggio: l’importanza della forma non deve portare al formalismo. Perché quello che conta è la sostanza: il ragno, non la ragnatela.
Dal logo del Musée d’Orsay alla crisi del settore tentato dalle velleità artistiche, il grafico ticinese racconta il mondo della comunicazione visiva nel giorno del Madrid Design Festival.
Giorgetto Giugiaro, la coppia di architetti basati a Shanghai Neri&Hu e Bruno Monguzzi: a ricevere il Madrid Design Festival Award 2020, oggi in Spagna, ci sarà anche il grafico originario di Chiasso. Non si tratta del primo riconoscimento internazionale, per Monguzzi, anzi: dalla britannica Royal Society of Arts all’Art Directors Club di New York, i premi ricevuti in anni di carriera sono molti. «Qui – ci spiega Monguzzi – abbiamo una manifestazione che dura un mese con numerosi eventi e che ogni anno individua, a livello mondiale, tre figure… che ovviamente non son più tanto giovani, perché il premio lo riferiscono alla traiettoria professionale». Ad accomunare i tre premiati, prosegue Monguzzi, «l’attenzione alla storia e ai materiali: la giuria ha evidentemente voluto mandare un messaggio in un momento in cui tutto l’ambito progettuale è in crisi di valori».
Che cosa intende?
Nel nostro mestiere, sta emergendo un approccio che potremmo definire squisitamente artistico – cosa mai esistita, almeno fino a un paio di decenni fa. Ma è importante che ci si capisca, per cui le faccio un esempio. Lei scrive su un giornale e dunque lei e i suoi colleghi avete una finalità di servizio. Succede qualcosa, questo qualcosa va comunicato e il suo modo di scrivere è finalizzato a un’utenza che ha bisogno di capire correttamente cosa sia accaduto. Una procedura di trascrizione che riguarda anche il lavoro dell’architetto e ancora di più del comunicatore visivo: dobbiamo raggiungere una finalità che è esplicita. Il lavoro artistico, invece, non ha necessariamente una consapevolezza, non ha un interlocutore dato.
Se vogliamo, l’arte è espressione più che comunicazione.
Esatto: un processo espressivo si fonda solo su stimoli endogeni, dei quali la persona può anche essere inconsapevole.
L’artista non deve neanche rendere conto a sé stesso: lui butta fuori e sarà la storia a dire se sia arte o meno.
Al contrario, se capisco bene, di progettisti e comunicatori visivi. Noi abbiamo un problema da risolvere per qualcun altro. Un aspetto specifico del nostro fare che oggi è in crisi perché ci sono molti progettisti la cui vera finalità è realizzare un’opera che li rappresenti.
È una differenza che oggi si sta perdendo, paradossalmente anche nelle scuole che spingono gli studenti a innovare. Il problema è che noi non possiamo che lavorare su dei codici: come la conoscenza della lingua permette a una persona di comprendere un testo in italiano o in tedesco, questi codici permettono di comprendere una comunicazione visiva. Se non seguo questi codici, lavoro solo per me stesso: posso produrre un’opera visiva esteticamente interessante ma che dal punto di vista della comunicazione è solo un’operazione introspettiva. E succede che dei committenti diciamo “poco acuti” non si rendano conto che stanno pagando un’operazione che non ha nessuna chance di raggiungere lo scopo.
Intendiamoci: un’alta qualità estetica ci deve essere, nel nostro lavoro. Ma deve essere incentrata sulla finalità, sull’obiettivo.
Che se non sbaglio è la metafora della mosca e della ragnatela – titolo di un libro (pubblicato da Casagrande) e di una mostra.
Sì, è stata la lezione centrale del mio processo formativo che ho avuto la fortuna di ricevere, ventenne, da Antonio Boggeri – figura fondamentale, in Italia, a partire dagli anni Trenta, un vero e proprio precursore in quella che noi oggi chiamiamo comunicazione visiva. Il lavoro del suo studio mi sembrava luminoso, intelligente e io ero confuso, molto più attirato dalla fotografia che dalla grafica.
Boggeri mi spiegava che la grafica svizzera era quasi sempre perfetta. Come lo è una ragnatela: una struttura perfetta, ma che diventa utile quando incontra la mosca, e in quell’incontro/scontro la perfezione è infranta. È in quel momento che la ragnatela raggiunge il suo scopo: la perfezione della costruzione è un mezzo per avere la sostanza, ma i grafici spesso guardano alla perfezione di una costruzione dimenticandosi il vero scopo, portare la sostanza. E il ragno non si nutre della perfezione della ragnatela. Boggeri aveva capito già allora che l’educazione svizzera, così incentrata sulla bontà formale, a volte si perdeva. Una bellezza gratuita: la buona forma non deve scivolare nel formalismo.