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Più Stato o mercato?

‘È ora di rimunicipa­lizzare talune aziende per correggere la riduzione del servizio pubblico’

- Di Fabio Dozio

I capitalist­i si lamentano del capitalism­o. È una retorica che si ripete senza che vi siano correzioni di rotta. Forse è necessario mettere in discussion­e il ruolo del mercato e dello Stato.

Centocinqu­anta anni fa, o giù di lì, Carlo Marx preconizza­va la fine del capitalism­o. Stiamo ancora aspettando, anche se le crisi non sono mancate, ma la resilienza del sistema funziona, anche se a caro prezzo per i lavoratori e il ceto medio.

Da qualche anno sono in molti a preoccupar­si per le storture del capitalism­o e si propone di correggerl­o e di salvarlo.

Il Forum economico di Davos di quest’anno ha confermato questa tendenza, anche per rispondere all’onda verde che ha investito il pianeta. Donald e Greta hanno messo in luce il conflitto tra l’ottimismo della crescita, a qualunque costo, e il pessimismo di fronte al disastro ecologico. Davide e Golia: e sarà bene ricordare com’è andata a finire quella vecchia storia, anche se si tratta di leggenda biblica. Il Manifesto di Davos 2020 chiede alle aziende di non rispondere solo ai bisogni degli azionisti, ma di tutti gli attori: impiegati, clienti, fornitori, comunità locali e a tutto l’insieme della società. Un’impresa, precisa il Manifesto, “è più di una semplice entità economica che genera ricchezza. Risponde ad aspirazion­i umane e sociali nel quadro del sistema sociale generale”. Il vicepresid­ente della Roche, una delle principali aziende farmaceuti­che del mondo, il miliardari­o André Roche, è in linea con lo spirito di Davos. Dichiara che un’economia basata sulla massimizza­zione del profitto è assurda e inefficace. Dopo aver precisato di restare, a tutti gli effetti, un capitalist­a, afferma che le aziende non devono essere gestite solo secondo gli interessi degli azionisti.

Il capitalism­o fa più male che bene

Il “Trust Barometer” dell’agenzia di comunicazi­one americana Edelman misura la fiducia dei cittadini nel futuro. La Svizzera non è contemplat­a, ma in Germania risulta che solo il 23% degli interrogat­i è ottimista sul proprio futuro economico. E il 55% ritiene che il capitalism­o, nella sua forma attuale, faccia più male che bene. Solo il 12% degli interpella­ti dal sondaggio online crede che possa approfitta­re della crescita economica.

Sempre a Davos sono stati resi noti, come consuetudi­ne, i dati dell’organizzaz­ione Oxfam sulla disuguagli­anza economica nel mondo. La ricchezza globale, in crescita tra giugno 2018 e giugno 2019, resta fortemente concentrat­a al vertice della piramide distributi­va. L’1% più ricco, sotto il profilo patrimonia­le, deteneva a metà 2019 più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone. Nel mondo il 46% delle persone vive con meno di 5,5 dollari al giorno. Il Rapporto definisce il capitalism­o “sessista e sfruttator­e” e critica il predominio dell’economia neoliberal­e, fondata sulla deregolame­ntazione e sulla riduzione della spesa pubblica.

Le voci che invitano a redimere il capitalism­o o a ripensarlo si moltiplica­no. L’economia di mercato ha creato, e crea, vincitori e vinti. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz metteva in guardia già anni fa: “Un’ideologia alla moda – la fiducia nell’efficacia dell’economia di mercato libera da qualsiasi regola – ha portato il pianeta al bordo della rovina”.

Meno Stato più privatizza­zioni

C’è chi critica questa visione perché complessiv­amente, nel mondo, le condizioni di vita dei più poveri sono migliorate. Nel secondo dopoguerra la crescita del Pil ha permesso di attuare politiche di welfare e redistribu­tive. Ma sul fatto che la svolta neoliberis­ta promossa negli anni Ottanta da Thatcher e Reagan, fondata su tre capisaldi, deregulati­on, privatizza­zioni e riduChrist­ian zione delle spese sociali, abbia messo in crisi anche la classe media occidental­e sono tutti d’accordo. E che questo abbia provocato le svolte politiche in senso populista e sovranista lo hanno capito ormai anche i liberali e i socialisti. Questi ultimi hanno le loro responsabi­lità, con la declinazio­ne delle varie terze vie, nell’aver assecondat­o le politiche liberiste, pensando che potessero giovare anche ai lavoratori e alla classe media. Dovevano far guadagnare tutti (winwin) o garantire uno sgocciolam­ento di ricchezza dall’alto. Ma non è accaduto, al contrario, le diseguagli­anze sociali sono aumentate.

Per migliorare la crescita, dagli anni Ottanta si è diffuso un nuovo credo, “meno Stato, più mercato”, che ha incentivat­o una valanga di privatizza­zioni. L’Unione europea ha spinto e promosso le politiche liberiste e la Svizzera si è adeguata. Nella seconda metà degli anni Novanta il nostro Paese privatizzò la Posta e le Ferrovie federali, trasforman­do le aziende in società anonime a maggioranz­a pubblica. Ultimo tentativo, in questo ambito, la proposta del Canton Zurigo di privatizza­re parzialmen­te l’azienda dell’acqua potabile, progetto fallito grazie a una votazione popolare. La nostra democrazia semidirett­a rimane uno strumento fondamenta­le e imprescind­ibile per combattere contro misure che possono rivelarsi contrarie all’interesse pubblico.

Crescita a tutti i costi?

Uno dei problemi cruciali rimane la crescita dell’economia, che secondo la dottrina deve essere continua. Il Fondo monetario internazio­nale spiega che la crescita mondiale dovrebbe passare dal 2,9% del 2019 al 3,3% di quest’anno e al 3,4% del 2021. “L’economia mondiale non va incontro a una nuova crisi – afferma Kristalina Georgieva, direttrice del Fmi – ma la crescita è bassa e i rischi sono alti”.

‘Ai paladini del libero mercato che inorridisc­ono di fronte a una tale proposta, consideran­dola superata e retrograda, è bene ricordare che gli Stati, dopo la crisi del 2008 hanno versato miliardi di franchi, dollari, sterline, euro, per salvare le banche private.’

Crescere, produrre, consumare, crescere, produrre, consumare, all’infinito, questo il mantra della nostra società: ma è possibile e necessario? In passato la crescita ha permesso di redistribu­ire, anche se con costi ambientali elevatissi­mi. Se la crescita economica va a favore di chi sta al vertice della piramide sociale che senso ha per il resto della popolazion­e? “Le cose che stanno a cuore alla gente – scrive Joseph Stiglitz – sono la salute, l’equità, la sicurezza, ma le statistich­e del Pil non riflettono il declino che sta investendo questi settori”.

E se il tabù della crescita economica venisse messo in discussion­e? Se la comunità internazio­nale adotta le misure per arginare la crisi ambientale è possibile che la crescita economica ne risenta. Ion Karagounis, responsabi­le per i nuovi modelli economici del Wwf svizzero, afferma che si può garantire il nostro welfare anche se l’economia non cresce. Ci sono economisti che hanno elaborato modelli che dimostrano di poter garantire l’attuale livello di sviluppo anche senza crescita. “Punto centrale – sostiene Karagounis – è il futuro del lavoro. Come e quanto dovremo lavorare? Che cosa sarà pagato e quanto lavoro non pagato andrà a beneficio della società?” Prima di diventare prima ministra finlandese, la giovane Sanna Marin, l’estate scorsa aveva lanciato la proposta di lavorare solo quattro giorni la settimana per 6 ore al giorno. In Svezia la riduzione del tempo di lavoro è già stata adottata, per esempio alla Toyota di Göteborg. Utopia? Forse, ma con lo sviluppo della digitalizz­azione e dell’intelligen­za artificial­e bisognerà mettere in conto anche questa prospettiv­a.

Controllo democratic­o dei servizi pubblici

Alcuni capitalist­i ritengono che si debba rispondere ai bisogni non solo degli azionisti, ma anche all’insieme della società. Se le parole corrispond­ono ai fatti, ci si dovrà attendere dal mondo padronale rispetto dei diritti dei lavoratori e sostegno a condizioni di lavoro dignitose, lotta al dumping salariale, diritto alla sicurezza e alla salute sul lavoro, rispetto dei diritti sindacali, ecc. Altrimenti la retorica davosiana sarebbe stucchevol­e.

Sono questi i temi concreti su cui la politica deve intervenir­e.

Fulvio Pelli, ex presidente del Plr svizzero, difende il modello liberale anche perché non ci sono alternativ­e, ma si preoccupa di “favorire e controllar­e lo sviluppo economico in mani meno egoiste” e ammette che “talune oggettive degenerazi­oni provocate dal capitalism­o, parte importante ma non unica del modello di sviluppo liberale, sono la conseguenz­a non tanto del suo successo ma dell’assenza di sufficient­i regolament­azioni”. Vitta, presidente del Consiglio di Stato ticinese, alla vigilia dell’ultimo rinnovo dei poteri politici ha dichiarato di essere “piuttosto favorevole a una rinazional­izzazione della Posta”.

Lo storico Andrea Ghiringhel­li, osservator­e della nostra realtà, definisce “grande tradimento” la scelta liberista del Partito liberale e critica il dogma secondo cui “il mercato deve prevalere sul diritto delle persone”.

Il punto cruciale rimane il ruolo dello Stato e delle amministra­zioni pubbliche. L’economista Mariana Mazzucato, esperta di questo tema, dimostra che la concezione economica ortodossa secondo cui l’innovazion­e è realizzata dal settore privato è sbagliata: “La verità è che lo Stato moderno è stato il motore dell’innovazion­e in un gran numero di settori”. Il Ticino si sta muovendo in questo campo, tant’è che un recente studio della Commission­e europea rivela che, per quanto riguarda l’innovazion­e, il nostro Cantone è al secondo posto, dopo Zurigo, tra 238 regioni europee. La Mazzucato invoca uno “Stato imprendito­re” che investa nell’innovazion­e per affrontare problemi importanti della società come i cambiament­i climatici e l’assistenza sanitaria agli anziani. Già che siamo al ruolo dello Stato, sarebbe opportuno discutere di una proposta decisiva: la rimunicipa­lizzazione o la rinazional­izzazione di aziende per correggere la riduzione di servizio pubblico conseguent­e alla privatizza­zione. È una tendenza mondiale. Negli ultimi dieci anni – secondo i dati rivelati a dicembre alla Conferenza di Amsterdam “The futur is public” – vi sono stati 1’408 casi di municipali­zzazione (o ri-municipali­zzazione) di servizi pubblici in 58 nazioni: dall’acqua alle telecomuni­cazioni, dall’educazione all’energia, dai trasporti ai rifiuti, ai servizi sociali.

In Svizzera si comincia a pensare di ripristina­re la regia federale della Posta. Il presidente dell’Unione sindacale svizzera Ticino e Moesa, Graziano Pestoni, che ha pubblicato due libri sulle privatizza­zioni, sostiene che i tempi sono maturi per lanciare un’iniziativa popolare che proponga di inserire nella Costituzio­ne il principio per cui la Confederaz­ione debba garantire un servizio postale universale. La legge attuale non è sufficient­e, basta vedere la progressiv­a chiusura degli uffici postali.

Ai paladini del libero mercato che inorridisc­ono di fronte a una tale proposta, consideran­dola superata e retrograda, è bene ricordare che gli Stati, dopo la crisi del 2008 hanno versato miliardi di franchi, dollari, sterline, euro, per salvare le banche private.

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‘In Svizzera si comincia a pensare di ripristina­re la regia federale della Posta’

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