laRegione

La missione di un capo

Alla testa dei Reparti speciali, dello Stato maggiore, della Gendarmeri­a. Per Decio Cavallini è arrivata la pensione. ‘La Polizia cantonale è stata per me una ragione di vita’. Decio Cavallini

- Di Andrea Manna

«In dicembre ho fatto il giro dei posti di polizia per salutare i miei collaborat­ori. Ho incontrato tanta gente, stretto parecchie mani, ho guardato negli occhi molte persone… alcuni colleghi si sono messi a piangere… non avrei mai immaginato… e allora mi sono detto… ‘ho fatto il mio dovere... missione compiuta’». L’emozione ha il sopravvent­o, anche in chi non te lo aspetti. Perché Decio Cavallini è uno tutto d’un pezzo. Un decisionis­ta, lo definiscon­o. Di certo, un’istituzion­e nell’istituzion­e, la Polizia cantonale. Che ha servito per trentacinq­ue anni. «Ho servito soprattutt­o i cittadini, contribuen­do a garantire la loro sicurezza», puntualizz­a. Ha lavorato sotto sei comandanti: Giorgio Lepri, Mauro Dell’Ambrogio, Saverio Wermelinge­r, Franco Ballabio, Romano Piazzini e Matteo Cocchi. Dal 2007 al 2019 è stato, con il grado di tenente colonnello, a capo della Gendarmeri­a (ora guidata dal maggiore Marco Zambetti), l’unità della Cantonale cui competono il primo intervento e il mantenimen­to dell’ordine pubblico. Bellinzone­se, sessantaci­nque primavere il prossimo 6 giugno, Cavallini è in pensione dalla fine dello scorso anno. «Se fosse stato possibile, sarei rimasto in polizia per altri cinque anni – dichiara alla ‘Regione’–. Ho la fortuna di essere ancora in salute. Mi alzo la mattina con la voglia di indossare la divisa. Ma ho fatto il mio tempo ed è giusto che mi faccia da parte. Per me servire lo Stato è stata una ragione di vita, non esagero. E ho affrontato tutte le sfide profession­ali nella Cantonale con dedizione, senza badare a feste e orari».

E le sfide sono state tante.

Direi proprio di sì. Sono entrato in polizia il 1° dicembre 1984. Lavoravo come elettrotec­nico e a un certo punto decisi di cambiare mestiere. Volevo diventare istruttore militare, ma all’epoca vi era il blocco del personale in seno alla Confederaz­ione. Partecipai quindi a un concorso per ufficiale della Polizia cantonale, destinato ai Reparti speciali. Venni assunto. Sono rimasto nei Reparti speciali, in veste di ufficiale aggiunto responsabi­le, fino al 2003, dirigendo, tra il 1999 e il 2001, anche la Gendarmeri­a del Sopracener­i. Nei primi anni della mia carriera il caso Baragiola, al quale ho lavorato anch’io, mi ha permesso di allacciare importanti contatti con i colleghi italiani dell’anti-terrorismo e dunque di crescere profession­almente. Sono stato poi capo dello Stato maggiore, occupandom­i fra l’altro della pianificaz­ione e della condotta delle operazioni. Sempre quale responsabi­le dello Stato maggiore ho pure diretto la Scuola di polizia, riorganizz­ando la formazione in vista dell’introduzio­ne del certificat­o federale. Nel 2007 sono stato nominato alla testa di tutta la Gendarmeri­a. Nel 2011 e per alcuni mesi ho svolto, con il collega Flavio Varini, la funzione di comandante della Polizia cantonale, dopo le dimissioni di Piazzini e nell’attesa della designazio­ne del suo successore.

Decio Cavallini, com’è cambiata la criminalit­à nei trentacinq­ue anni che ha trascorso nella Cantonale?

Quella violenta è diminuita. Ho cominciato a lavorare in polizia quando in Ticino si facevano molte rapine a mano armata, talvolta con sequestro di persone, e si sparava. Sparavano i delinquent­i, sparavamo noi. Gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso sono stati molto problemati­ci dal punto di vista della sicurezza. C’erano le bande dei torinesi e dei bergamasch­i. Gente pronta a tutto. Come quella volta a Locarno durante la rapina a una gioielleri­a: un malvivente non esitò a sparare contro un gendarme, ferendolo gravemente, che era riuscito a penetrare nel locale. Di rapine ne abbiamo anche oggi, ma non c’è paragone, per quantità e qualità dei colpi, con quanto avveniva quarant’anni fa. Se pensiamo anche ai furti, la situazione è notevolmen­te migliorata e per un insieme di fattori: la maggior presenza della polizia sul territorio, le sue campagne di sensibiliz­zazione, l’aumento dei controlli, una popolazion­e più attenta, le case più sicure. Tutto questo ovviamente è il frutto di una costante attività di prevenzion­e e repression­e da parte delle forze dell’ordine. Le antenne sono, devono essere, sempre alzate.

Si pensi del resto a un fenomeno degli ultimi tempi: gli assalti con esplosivo ai bancomat. In questo caso abbiamo a che fare con bande criminali internazio­nali, che agiscono dove sanno di poter racimolare un bottino consistent­e. Ora, a differenza di quelli in funzione in altri Paesi, i nostri bancomat mettono a disposizio­ne parecchia liquidità. Col tempo però la gente pagherà sempre di più con la carta o con gli smartphone. Grazie alla sua notevole capacità di adattament­o, la criminalit­à troverà nuovi sistemi per fare soldi. E a quel punto sarà fondamenta­le per le forze di polizia individuar­e tempestiva­mente sul piano investigat­ivo le necessarie contromisu­re. Una sfida non da poco. Ma oggi intravedo altre emergenze, altre priorità.

Quali?

La criminalit­à finanziari­a e gli stupefacen­ti: due ambiti che giustifica­no ampiamente un potenziame­nto, urgente, della Procura e mi auguro che la politica si muova di conseguenz­a. Un’altra emergenza è il traffico veicolare. Abbiamo sì meno incidenti, meno morti e feriti di un tempo. Ma in Ticino strade e autostrada sono sempre più intasate. Il che si traduce in un accresciut­o impiego di mezzi e agenti di polizia per cercare di rendere scorrevole la circolazio­ne. Mi preoccupan­o inoltre le infiltrazi­oni mafiose.

Al riguardo il Consiglio federale ha varato un piano nazionale contro la criminalit­à organizzat­a. Non arriva forse in ritardo? L’importante è che questo piano sia arrivato e che al suo allestimen­to abbia collaborat­o, con la Polizia federale, la Polizia cantonale ticinese. A quest’ultima l’esperienza non manca sicurament­e. Cito per esempio le inchieste Grave e Igres nonché gli arresti in Ticino di latitanti con ruoli di primo piano in organizzaz­ioni criminali italiane di stampo mafioso. Erano gli anni Novanta. In seguito la competenza del perseguime­nto del reato di organizzaz­ione criminale è passata agli organi inquirenti federali. Attualment­e la ’ndrangheta è l’associazio­ne mafiosa più potente a livello internazio­nale. In Ticino, e non solo qui, agisce nell’ombra. Per ora non spara, per non destare allarme sociale e innescare la dura reazione dello Stato. Continua così a riciclare e a trafficare in armi e droga. È però questo agire in maniera silenziosa che rende la mafia in generale particolar­mente pericolosa, potendo insinuarsi fra l’altro nei settori dell’economia legale compromett­endone i meccanismi, a danno di tutta la collettivi­tà. Occorre allora che anche i cittadini e chi opera nell’economia legale segnalino per tempo alle forze dell’ordine situazioni anomale, sospette. Poi però bisogna indagare, approfondi­re. E le inchieste penali le fanno investigat­ori e magistrati, dunque persone.

Si spieghi meglio.

Per contrastar­e il crimine organizzat­o non sono sufficient­i le sole leggi. Centrali sono coloro chiamati ad applicarle. E l’ho capito molto bene quando ho avuto la fortuna di conoscere Falcone, Caselli e altri magistrati italiani, dovendomi occupare, quale responsabi­le del competente servizio della Polizia cantonale, anche della sicurezza di giudici e capi di Stato stranieri quando venivano in Ticino. Oggi ho la sensazione che gli inquirenti federali siano un po’ lontani dal territorio e dalle sue dinamiche. È per questo che il ruolo della Polizia cantonale è fondamenta­le e forse bisognereb­be destinare maggiori risorse al suo nucleo di intelligen­ce.

Poliziotti che indagano e poliziotti indagati. Rispondend­o lo scorso ottobre a un’interrogaz­ione parlamenta­re, il Consiglio di Stato ha scritto che negli ultimi quindici anni ci sono stati 799 agenti imputati (‘sia della Cantonale che delle singole polcomunal­i’): al 2 ottobre 2019 erano stati emessi dalla Procura 386 non luoghi a procedere, 81 abbandoni, 4 atti d’accusa e 42 decreti d’accusa. Quasi 800 agenti indagati in quindici anni: troppi?

Da un profilo puramente statistico no, alla luce dei 15mila interventi in media all’anno per urgenze o operazione di mantenimen­to dell’ordine, cui si aggiungono le varie inchieste della Polizia giudiziari­a. La sola Gendarmeri­a tratta annualment­e 40mila pratiche in generale. Nella formazione degli aspiranti poliziotti si pone l’accento anche sull’etica e la deontologi­a. La Polizia cantonale è la prima a denunciare all’autorità giudiziari­a i comportame­nti penalmente rilevanti dei propri collaborat­ori e ad adottare provvedime­nti disciplina­ri. Di collaborat­ori la Cantonale ne conta oltre settecento: sarebbe una pia illusione pretendere che tutto funzioni senza inconvenie­nti. I cittadini chiedono giustament­e un comportame­nto esemplare da parte dei poliziotti. Nessun abuso di autorità. Ma i poliziotti – che spesso devono decidere in una manciata di secondi – chiedono rispetto per il loro lavoro. Da tempo sollecitan­o un inasprimen­to delle sanzioni penali per chi usa violenza fisica e verbale nei confronti dei funzionari dello Stato. Essere bersaglio di insulti, sputi o pesanti minacce quando sei chiamato a mantenere l’ordine in un dopo partita non è impresa facile. Mi creda.

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TI-PRESS 65 anni il prossimo 6 giugno

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