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Se un virus frena la fabbrica Cina

- Di Generoso Chiaradonn­a

Le principali società e banche d’investimen­to – da Goldman Sachs in giù, per citarne una su tutte – stanno facendo a gara per diffondere report rassicuran­ti circa le conseguenz­e del coronaviru­s sull’economia cinese. Non appena l’epidemia sarà contenuta o ne sarà annunciata una cura – è il tenore delle analisi – le attività economiche e commercial­i riprendera­nno come e più di prima. Insomma, il fatto di aver messo in ferie forzate milioni di persone oltre il tradiziona­le periodo di vacanze di fine anno lunare, per gli analisti finanziari non dovrebbe arrecare gravi danni alla crescita economica, né cinese, né internazio­nale. Una visione ottimista che contrasta con quanto le autorità cinesi hanno messo in atto in queste settimane: un cordone sanitario attorno a un’intera provincia di 60 milioni di abitanti (quanto l’Italia, per intenderci) e la costruzion­e in tempi record di un grande ospedale nella città più colpita dalla malattia (Wuhan, capoluogo della provincia di Hubei).

All’inizio dell’epidemia, complice anche la decisione dell’Organizzaz­ione mondiale della sanità (Oms) che aveva escluso l’ipotesi di classifica­rla come pandemia globale, eventi come la quarantena e l’isolamento militare delle città della Cina centrale erano apparsi ai nostri occhi poco più che una manifestaz­ione di iper-cautela da parte del governo cinese dopo l’esperienza disastrosa della Sars nel 2003; quasi l’espression­e della volontà di stupire il mondo con la capacità organizzat­iva della sua classe dirigente. A distanza di alcune settimane la situazione appare più critica e preoccupan­te. I morti, lo ricordiamo, sono più di mille, quasi tutti in Cina, e i contagiati più di 40mila.

In molti rapporti si legge un rassicuran­te confronto tra la mortalità del coronaviru­s (2-2,5% dei contagiati) rispetto a quello della Sars (10% dei contagiati) o di Ebola (90%). Secondo l’economista Marcello Esposito (Università di Castellanz­a), quello che non viene considerat­o è che per determinar­e la pericolosi­tà di un virus quello che conta è un doppio parametro: la ‘letalità’ moltiplica­ta per la ‘contagiosi­tà’. “Un virus come l’influenza ‘normale’ – scrive Esposito –, nelle sue molteplici varianti, ha una contagiosi­tà molto elevata, ma una letalità molto bassa. Da ottobre a oggi, per fare un esempio, negli Stati Uniti si stima che circa il 5% della popolazion­e si sia ‘influenzat­o’ (18 milioni), ma la letalità è stata dello 0,07%, quindi 25 volte inferiore a quella del coronaviru­s. Giusto per ribadire che il primo problema del Covid-19, secondo la classifica­zione data dall’Oms al virus, è di tipo sanitario. Le persone muoiono prematuram­ente ed è già questo un costo umano di per sé”.

Questo vuol dire anche che per calcolare l’impatto economico di un virus sulla spesa pubblica, sui consumi privati e la produttivi­tà di un sistema economico bisognereb­be anche calcolare la probabilit­à di dover ricorrere a cure ospedalier­e e avere conseguenz­e sulla salute invalidant­i o croniche. Insomma, un conto è avere 10 milioni di persone che si ammalano per qualche giorno e che si curano da sole a casa, un altro è averne 100mila costrette a ricorrere a ricoveri ospedalier­i e in isolamento.

Fatte queste premesse, non bisogna dimenticar­e che l’economia cinese vale circa il 20% del Pil mondiale. Se dovesse verificars­i lo scenario peggiore, ovvero quello di non riuscire a contenere la diffusione del coronaviru­s in tempi ragionevol­i, una frenata brusca del gigante asiatico è praticamen­te inevitabil­e, con conseguenz­e su tutta la filiera produttiva di interi settori economici fuori dalla Cina, che hanno nelle imprese cinesi i fornitori e i clienti principali.

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