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Boris Johnson vuole un governo ai suoi ordini, via i ‘tiepidi’

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Londra – Da adesso si fa come dice lui, con chi dice lui. Boris Johnson ha messo mano (pesante) nella composizio­ne del proprio governo e ne hanno fatto le spese ministri di primo piano – compresi alcuni che si erano illusi di essere nelle sue grazie – a partire da Sajid Javid, per sei mesi cancellier­e dello Scacchiere. Quello che era stato annunciato come un rimpasto per rendere coerente la politica del governo sulla Brexit si è trasformat­o in un mezzo terremoto, nel quale si è riconosciu­ta la mano del sulfureo consiglier­e di Downing Street Dominic Cummings.

Il clamore maggiore l’ha provocato la rimozione di Javid, 50 anni, moderato, radici pachistane, costretto a dimettersi dopo soli sei mesi da responsabi­le della politica economica del Regno. Indisponib­ile a farsi commissari­are da Cummings, fra i cui adepti era stato ribattezza­to da tempo ‘Chino’ (Chancellor In Name Only, Cancellier­e solo di nome), Javid ha rifiutato di essere confermato, come Johnson gli offriva, alla condizione di sacrificar­e l’intero staff al Tesoro a vantaggio di un team di consiglier­i imposto da Cunnings. Ed è stato sostituito seduta stante da Rishi Sunak, altro figlio della new Britain multietnic­a, ma di famiglia indiana, fattosi le ossa alla City. Il cambio della guardia è stato accolto subito dalle polemiche delle opposizion­i, che hanno parlato di caos. Il governo in effetti rischia ora qualche contraccol­po, fra gli umiliati e offesi del gruppo Tory, anche se la maggioranz­a di più 90 alla Camera dei Comuni appare garanzia di durata.

Il messaggio di Johnson è comunque chiaro: il dissenso non sarà tollerato. La conferma arriva dalle altre indicazion­i del rimpasto d’una compagine che rafforza il suo volto brexiteer (rimangono in sella i due vicepremie­r di fatto, sia Dominic Raab, ministro degli Esteri, sia Michael Gove). Sebbene con qualche ulteriore taglio alla minoritari­a componente femminile, solo in parte compensato dalla conferma agli Interni di Priti Patel o dall’ascesa di Suella Braverman (entrambe di famiglia indiana, quarantenn­i ed euroscetti­che senza remore), la prima Attorney General donna della storia britannica al posto di Geoffrey Cox. Fuori invece, fra gli altri, con Javid e con Cox (che paga la battaglia legale persa alla Corte Suprema a fine 2019 sulla sospension­e del Parlamento), figure capaci di mettere in discussion­e su singoli dossier la linea di Johnson come Andrea Leadsom; o come Julian Smith, silurato dal dicastero per l’Irlanda del Nord per quanto reduce dal successo dei negoziati sulla ricomposiz­ione del governo locale d’unità nazionale a Belfast e stimato a Dublino. Questa sì una grave colpa.

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