Cosmopolitismo imparare lo straniero
I nostri nonni dicevano che bisogna sprovincializzarsi. Non era una cattiva idea, specie se serviva a giustificare qualche supplemento di mancia per finanziare viaggi all’estero, non solo per studiare. Ci sarebbe voluto un intellettuale bengalese, Dipes Chakrabarty, per darci la misura di come le idee diventano datate. Lui si rivolge ora a noi europei dicendo che dobbiamo provincializzarci. Togliendo quella sola ‘s’, ci insegna in modo fulmineo e un po’ spaesante che entrare nella dimensione cosmopolitica significa prima di tutto, anche stando a casa, abituarsi all’idea di essere ‘una’ provincia, una delle molte e non il centro del cosmo, ovvero quel luogo dell’universo dove tutti gli esseri umani pensano di trovarsi, per esserci nati. Sotto queste insegne si può imparare bene a ‘guardarsi da fuori’ e a vedere noi stessi come una delle tante possibilità della geografia umana presente sotto il cielo. Organizzare sistematicamente la formazione di giovani fuori dal proprio paese a contatto quotidiano con le altre nazioni e culture è un metodo per mettere in pratica il suggerimento del pensatore bengalese (che non a caso si è formato tra Calcutta, l’Australia e Chicago).
Certo ne abbiamo bisogno noi europei, alle prese con le sfide di un mondo nuovo fatto di emigrazione, tumultuoso pluralismo culturale e religioso, meticciato, invecchiamento (sia benedetto) dei nativi. La nostra è una necessità assoluta e urgente, cresciuti come siamo nella quiete di vastissime e, fino a poco fa indiscusse, maggioranze linguistiche, culturali, confessionali. Siamo in un campo, quello dell’addestramento al nuovo, dove non basta pronunciare la parola cosmopolitismo, o multiculturalismo, per capirsi. C’è un cosmopolitismo universalistico e astratto (siamo tutti apolidi?) indifferente a ogni genere di radice culturale e territoriale: è il cosmopolitismo delle ricchezze senza bandiere che volano nei cieli dell’evasione fiscale. È una forma di irresponsabilità senza ancoraggi, che aggira le democrazie nazionali (...)
(...) e non fa bene alla civiltà. E c’è un multiculturalismo senza dialogo tra le culture, per cui comunità diverse vivono vite parallele le une accanto alle altre. È un altro modo di scoraggiare la integrazione e la responsabilità degli individui e di ingannare le società democratiche.
Nessuna cultura è isolata dal resto del mondo umano come un cristallo o una essenza pura, tutte sono continuamente in evoluzione e soggette a cambiamenti, che derivano dalle relazioni di convivenza, conflitto, scambio con le altre culture. Non si tratta nel nostro tempo del solo pluralismo politico, ma anche di quel pluralismo ‘forte’ o ‘profondo’ che include le differenze culturali e che comincia sempre dalla conoscenza degli altri. L’esperienza di imparare gli altri inizia quando si abbandona l’idea monolitica che abbiamo dei diversi, degli stranieri, quali che siano (balcanici o magrebini, africani, asiatici, musulmani e non) e nel vederne la varietà, la mutevolezza, il caos. Ogni diversità culturale in ogni momento è in rapporti di reciproca interpretazione, dialogo, contrasto con altre civiltà e questo intreccio induce permanenti modifiche in ciascuna di loro. La migrazione è un fenomeno complesso e che offre opportunità, ma anche sfide. L’obiettivo deve essere quello di gestirla in modo efficace e umano, affinché ne possano trarre beneficio sia i paesi d’accoglienza, sia quelli d’origine, sia i migranti stessi.