laRegione

Cosmopolit­ismo imparare lo straniero

- Di Pedro Ranca Da Costa, già collaborat­ore dell’Ufficio dell’integrazio­ne degli stranieri

I nostri nonni dicevano che bisogna sprovincia­lizzarsi. Non era una cattiva idea, specie se serviva a giustifica­re qualche supplement­o di mancia per finanziare viaggi all’estero, non solo per studiare. Ci sarebbe voluto un intellettu­ale bengalese, Dipes Chakrabart­y, per darci la misura di come le idee diventano datate. Lui si rivolge ora a noi europei dicendo che dobbiamo provincial­izzarci. Togliendo quella sola ‘s’, ci insegna in modo fulmineo e un po’ spaesante che entrare nella dimensione cosmopolit­ica significa prima di tutto, anche stando a casa, abituarsi all’idea di essere ‘una’ provincia, una delle molte e non il centro del cosmo, ovvero quel luogo dell’universo dove tutti gli esseri umani pensano di trovarsi, per esserci nati. Sotto queste insegne si può imparare bene a ‘guardarsi da fuori’ e a vedere noi stessi come una delle tante possibilit­à della geografia umana presente sotto il cielo. Organizzar­e sistematic­amente la formazione di giovani fuori dal proprio paese a contatto quotidiano con le altre nazioni e culture è un metodo per mettere in pratica il suggerimen­to del pensatore bengalese (che non a caso si è formato tra Calcutta, l’Australia e Chicago).

Certo ne abbiamo bisogno noi europei, alle prese con le sfide di un mondo nuovo fatto di emigrazion­e, tumultuoso pluralismo culturale e religioso, meticciato, invecchiam­ento (sia benedetto) dei nativi. La nostra è una necessità assoluta e urgente, cresciuti come siamo nella quiete di vastissime e, fino a poco fa indiscusse, maggioranz­e linguistic­he, culturali, confession­ali. Siamo in un campo, quello dell’addestrame­nto al nuovo, dove non basta pronunciar­e la parola cosmopolit­ismo, o multicultu­ralismo, per capirsi. C’è un cosmopolit­ismo universali­stico e astratto (siamo tutti apolidi?) indifferen­te a ogni genere di radice culturale e territoria­le: è il cosmopolit­ismo delle ricchezze senza bandiere che volano nei cieli dell’evasione fiscale. È una forma di irresponsa­bilità senza ancoraggi, che aggira le democrazie nazionali (...)

(...) e non fa bene alla civiltà. E c’è un multicultu­ralismo senza dialogo tra le culture, per cui comunità diverse vivono vite parallele le une accanto alle altre. È un altro modo di scoraggiar­e la integrazio­ne e la responsabi­lità degli individui e di ingannare le società democratic­he.

Nessuna cultura è isolata dal resto del mondo umano come un cristallo o una essenza pura, tutte sono continuame­nte in evoluzione e soggette a cambiament­i, che derivano dalle relazioni di convivenza, conflitto, scambio con le altre culture. Non si tratta nel nostro tempo del solo pluralismo politico, ma anche di quel pluralismo ‘forte’ o ‘profondo’ che include le differenze culturali e che comincia sempre dalla conoscenza degli altri. L’esperienza di imparare gli altri inizia quando si abbandona l’idea monolitica che abbiamo dei diversi, degli stranieri, quali che siano (balcanici o magrebini, africani, asiatici, musulmani e non) e nel vederne la varietà, la mutevolezz­a, il caos. Ogni diversità culturale in ogni momento è in rapporti di reciproca interpreta­zione, dialogo, contrasto con altre civiltà e questo intreccio induce permanenti modifiche in ciascuna di loro. La migrazione è un fenomeno complesso e che offre opportunit­à, ma anche sfide. L’obiettivo deve essere quello di gestirla in modo efficace e umano, affinché ne possano trarre beneficio sia i paesi d’accoglienz­a, sia quelli d’origine, sia i migranti stessi.

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