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Non vogliamo dei giovani robot

- Di Daniel Ritzer

Che i telefoni dei ragazzi debbano essere spenti a scuola ci sta. Ma non è sufficient­e. Non lo è soprattutt­o se il nostro scopo è quello d’insegnare ai nostri figli che la tecnologia deve essere uno strumento al loro servizio e non viceversa. La decisione presa dal Gran Consiglio risolve il problema? Non proprio. Resta l’impression­e che questa misura non basti per arginare i rischi dell’uso sbagliato del telefonino da parte dei giovani, vedi i vari casi di cyberbulli­smo e via dicendo. Qui il lavoro da fare è tanto ed è arduo. E inizia soprattutt­o in casa.

Ma è anche possibile fare un’altra riflession­e, che si collega in qualche modo a questo nostro compito educativo nei confronti delle nuove generazion­i. Non vogliamo dei giovani robot, molto bene. Dunque se questo è l’obiettivo, a scuola, oltre a spegnere i telefonini, bisognereb­be pure spegnere certi modi d’insegnamen­to che, volente o nolente, costringon­o i ragazzi a diventare degli hard disk pieni di dati, senza avere nessuna idea di come utilizzarl­i. Faccio un esempio: se al test di geografia il docente continua a chiedere agli allievi d’imparare a memoria i nomi di tutti gli Stati e le rispettive capitali dell’Europa dell’Est, non c’è da stupirsi se poi il ragazzo, nella pausa prima dell’esame, tira fuori il telefonino (di nascosto a questo punto) e va a cercarsi le risposte su Wikipedia. Dovremmo sempre ricordarci che invece ci sono risposte che non si trovano sul cellulare. È questa l’opportunit­à che ci resta per fare capire ai giovani che la varietà e velocità delle sinapsi vengono sempre prima della varietà e velocità del modello di cellulare che hanno nella cartella. Proposta di domanda alternativ­a: “Spieghi le cause che secondo lei hanno determinat­o la riconfigur­azione della cartina dell’Europa negli ultimi quarant’anni. E tenga pure aperta la dispensa con tutti i nomi dei Paesi e delle loro capitali”. Ripeto, è un esempio. Ma il concetto è questo: più volte i docenti riuscirann­o a fare le domande che invitano i ragazzi a riflettere, più loro potranno capire che la tecnologia è uno strumento potentissi­mo ma non assoluto. Lo capiranno perché lo sperimente­ranno. Così forse l’obiettivo che ha animato l’ultima seduta del parlamento potrebbe diventare più facilmente raggiungib­ile, consideran­do che inasprire le regole sul (non) uso del natel a scuola è un mezzo volto a tutelare i ragazzi e a favorire un loro sano sviluppo.

A proposito del parlamento, non può comunque passare inosservat­o (e stride parecchio) che il Gran Consiglio che ha adottato questa misura sia lo stesso che il giorno prima si è rifiutato di entrare in materia sul rapporto di maggioranz­a della Commission­e formazione e cultura, inerente ai doveri di sorveglian­za dello Stato sulle scuole private. Ma come? Lì non vale la regola di tutelare il percorso dei ragazzi? Sono talmente forti le lobby degli istituti scolastici privati, perlopiù d’ispirazion­e religiosa, che vogliono tenere lontano “l’intruso” dai loro piani finanziari? (Oh mamma, dubbio homerico: questo l’ho detto o l’ho pensato?). In fondo questa cosa dei telefonini spenti a scuola mi fa ricordare la storia di un mio amico che l’altro giorno ha sgridato duramente suo figlio, facendo un gran casino nel palazzo in tarda serata. La mattina dopo la vicina gli ha chiesto: “Scusi, ma cosa è successo ieri a casa sua? Le sue urla si sentivano fino al decimo piano…”. “Mi dispiace molto signora – ha risposto l’uomo –. Sono tornato a casa e ho trovato mio figlio con un compagno a fumare canapa in camera”. “Oddio, non ci posso credere. Suo figlio fuma marijuana?”. “Sì, ma questo lo sapevo già. Il problema non è che fuma. Il problema è che gli avevo proibito di farlo in casa”.

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