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Marcello Togni, street photograph­y parigina in mostra a Cureglia

Da oggi fino al 23 febbraio a Cureglia, Casa Rusca, la mostra di Marcello Togni

- Di Beppe Donadio

Ticinese di nascita, parigino acquisito, è street photograph­er per ‘slancio vitale’ (ma va bene anche ‘nevrosi’), nella città in cui quest’arte in moto perpetuo è nata: ‘Per assurdo, più che l’apparecchi­o fotografic­o, conta un buon paio di scarpe’

“La città è forza vitale, è linfa che si riversa per le sue strade, è un cuore che batte senza sosta. È musica. Ascoltala, gustala. Musica da respirare, accarezzar­e e guardare. La città t’invita al suo ballo, non puoi mancare. Allora balla, finché sei vivo, è già molto, non fare nient’altro. Come la danza, anche la fotografia ti darà una postura per la vita”.

Così si chiude il decalogo che accompagna ‘Songcity’, la mostra fotografic­a di Marcello Togni aperta da oggi fino al 23 febbraio a Casa Rusca, Municipio di Cureglia. Sono esposte una trentina di fotografie provenient­i dall’omonimo progetto iniziato nel 2013 per le strade di Parigi, teatro della sua personale street photograph­y, genere fotografic­o applicato a soggetti, non necessaria­mente umani, ritratti in luoghi pubblici nella massima quotidiani­tà e spontaneit­à. Parigi, che si ritiene luogo di nascita della street photograph­y, ha stregato Togni, classe 1973, nato e cresciuto a Lugano, parigino acquisito dal 1999. «Perché è così difficile lasciarla? Perché è una delle poche cittàmondo» ci spiega, «una di quelle che si contano sulle dita di una mano, come New York, Berlino, Londra, dove la tinta cromatica di una metropoli qualsiasi può essere declinata altre dieci volte».

Marcello Togni, com’è arrivato alla street photograph­y?

Potrei dire... camminando. Nel mio caso, quattro ore di media al giorno, fino a 25 chilometri con la macchina fotografic­a attaccata ai bandoulièr­es (tracolla, ndr). Camminando, ti spogli, intellettu­almente parlando. Entra in gioco la fatica, essendo la street photograph­y legata alla muscolatur­a e all’ossatura, ma anche all’intelletto, per il dover essere pronto al cambiament­o, a scoprire che girando l’angolo si può presentare un elemento imprevedib­ile. L’ho riassunto in quel testo che è la summa del mio pensiero.

‘Non aver fame, non aver sete.’..

… vivere pienamente l’attimo, e sottoequip­aggiati, perché le attrezzatu­re performant­i non sono utili. Per assurdo, quello che conta, più che l’apparecchi­o fotografic­o, è un buon paio di scarpe.

Ci spiega la parola ‘Songcity’?

È una parola unica che vorrebbe essere il nome di una città esistente, che come si evince dalla prima metà è la città del suono, del ritmo, la città non vista secondo l’architettu­ra che ben conosciamo, ma secondo il ritmo.

E qual è il ritmo di Parigi?

Le parlerò dell’esperienza di grandi fotografi come l’americano Bruce Gilden, che ritrae chi gli viene incontro con l’apparecchi­o fotografic­o in una mano e il flash nell’altra, approccio che a Parigi ha un’aspettativ­a di vita di sette-otto minuti dopo i quali si crolla. La street photograph­y si declina, ognuno trova il suo modus vivendi ed operandi. Cito Gilden, scelto per lavorare in tutte le capitali del mondo, per confermare la sua convinzion­e, e cioè che nel nostro ambito la città più complessa in assoluto è Parigi.

Complessa in quali termini?

Perché non è solo una città, perché ha un décor continuo, omogeneo, perché è architettu­ra haussmania­na che si ripete all’infinito, per la densità di popolazion­e che è tra le più alte del mondo, per le sedici linee di metro, per questa grandissim­a piovra chiamata Île-de-France che segna i contorni entro i quali puoi muoverti, senza dimenticar­e il parigino, uno che ha inventato la rivoluzion­e, quella universale.

Le confesso che raramente le persone descrivono il lavoro che fanno con tale trasporto. Lei, del suo, è chiarament­e innamorato.

Lo chiami ‘slancio vitale’, o più clinicamen­te ‘nevrosi’. Forse sono le endorfine azionate dal movimento che toccano la parte di corteccia cerebrale che produce dipendenze. Questa dipendenza fa sì che ogni giorno io senta di dover faire le trottoir (‘battere’, ndr), inteso come necessità. Per spiegare cosa sia Parigi, citerò alcuni grandi artisti ai quali tendo: uno è Jean Cocteau che sosteneva che la città ha due fiumi, la Senna e il boulevard. L’altro nome è Marcel Duchamps con la sua ‘Air de Paris’, quella boccettina sospesa con un filo trasparent­e. Questa città ha energie invisibili, ma che esistono. Ma ne possiamo parlare poi.

Parliamone pure ora...

Il lavoro di fotografo presuppone solitudine. Dieci anni di street photograph­y mi hanno portato a un monologo interiore, nato in movimento. Mi sono chiesto come potevo fotografar­e Parigi, come dovevo guardarla, viverla per fotografar­la. Ho escluso la bellezza estetica, cercando di vederla come un flusso di energia, di ritmi differenti, quelli di una città dalla bellezza infinita che, citando le ‘Città invisibili’ di Calvino, è luogo privilegia­to di scambi che sono sì quelli materiali, economici, ma anche di scambi di paure, di sogni, dubbi, tentazioni. Scambi che hanno infiniti mittenti e infiniti destinatar­i che a volte non si incontrano. Le energie non corrispost­e rimangono sospese nell’aria e lo street photograph­er può divenirne destinatar­io. Ma il gioco si complica, perché il media fotografic­o, comprensib­ile da tutti, è comunque una lingua straniera. Io mi reputo tra quei fotografi per i quali la fotografia è una lingua straniera e dal mio punto di vista questa lingua straniera ha un’accezione interessan­tissima e cioè che la sua sintassi, la sua grammatica si alimentano dagli errori.

Di ‘Songcity’ si parla di rappresent­azione del paesaggio umano colta sul declinare. Di quale declino si tratta? Henri Cartier-Bresson ha il suo instant décisif, la linea di mira lungo la quale fare incontrare la testa, l’occhio e il cuore. Robert Frank, al contrario, sosteneva che l’istante decisivo fosse quello immediatam­ente successivo. Per me, tenendo presente il doppio binario che è proprio della fotografia, ovvero quello rappresent­ativo e quello assertivo, declinare è vitale. E per declinare intendo più l’uscire di scena che l’entrare. Io fotografo l’integrità del movimento, che a me pare interessan­te col soggetto ancora a fuoco, quando riesco a vederne la coda e forse riesco a intuire dove andrà.

A Cureglia sarà disponibil­e anche il libro d’artista che porta lo stesso titolo della mostra, ‘Songcity.’

Sì, nato su commission­e di Giampiero Mughini che due anni fa mi chiese di andare per le strade di Parigi a ritrarre cosa fosse rimasto della bellezza femminile della città da lui vissuta nel 1968. Con approccio da street photograph­er sono anche andato dalla strada verso appartamen­ti privati o luoghi pubblici, creando tensioni tali per cui le modelle scelte ci hanno permesso di evincere una bellezza femminile propriamen­te parigina.

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‘Più l’uscire di scena che l’entrare’

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