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‘Non potevo restare in Ticino’

L’attaccante bianconero Alexander Gerndt è ‘scappato’ da Lugano per tornare in Svezia

- Di Daniele Neri

«Per noi stranieri che giocavamo all’estero, c’era solo un’alternativ­a, rientrare il più presto possibile in patria, a casa nostra, dove eventualme­nte, in caso di bisogno, un aiuto ci poteva essere (familiari e amici). In Svezia ho la fortuna di avere i miei genitori, questi potevano garantire una sicurezza fondamenta­le per mia moglie, le mie due figlie e il sottoscrit­to, per poter affrontare questo momento difficile». Queste le prime parole di Alexander Gerndt, il 33enne attaccante svedese, in forza all’Fc Lugano, da noi contattato telefonica­mente, da 10 giorni rientrato in patria. «Con mia moglie Frida abbiamo deciso, come poi stanno facendo tutti i miei compagni che non sono ticinesi, di non rimanere a Lugano. Troppi punti interrogat­ivi, molte incertezze. La parola d’ordine era rimanere a casa. In Svizzera non abbiamo nessun parente al quale appoggiarc­i, se fosse successo qualcosa a me o a mia moglie sarebbe stata una catastrofe. Abbiamo così deciso di partire. Chiaro, le condizioni di viaggio non erano ottimali, ma siamo arrivati sani e salvi a casa mia. In un primo tempo pensavamo di intraprend­ere la trasferta in macchina, ma in Germania, alla frontiera, non ci avrebbero lasciato passare. Per fortuna giornalmen­te c’è ancora un volo per Stoccolma che parte da Zurigo. Arrivati in Svezia, abbiamo proseguito dapprima con la macchina e infine con un traghetto che ci ha portati a casa mia, a Visby, la città più grande sull’isola di Gotland. Qui abitano i miei genitori, dai quali stiamo alloggiand­o».

‘Rimarrò qui fino a situazione normalizza­ta’

Da quanto si legge e si sente, la situazione in Svezia, per quanto concerne il coronaviru­s, ad oggi è differente dal resto dell’Europa. Alcune restrizion­i ci sono, ma la vita continua come prima. «Posso raccontart­i quello che ho visto fino ad oggi. Noi qui a Visby si continua a vivere abbastanza normalment­e, i miei genitori lavorano regolarmen­te, chiaro che ci sono alcune restrizion­i e si fa molta attenzione per non essere contagiati, ma posso allenarmi in maniera tutto sommato normale, meglio che a Lugano, dove non si poteva uscire. Chiaro non so ancora per quanto, perché i casi di Covid-19 stanno aumentando molto velocement­e. Il governo dice di avere la situazione sotto controllo, io non sono molto convinto, ma vedremo. In tutti i casi, resterò qui in Svezia finché la situazione si sarà normalizza­ta. L’importante è non farsi prendere dal panico, rimanere tranquilli e fiduciosi. Lo so che non è facile, ma è fondamenta­le per affrontare tempi difficili».

‘Futuro pieno di punti interrogat­ivi’

I tuoi contatti con la tua squadra... «Chiaro, mi sento con alcuni compagni e soprattutt­o con Mattia “Crus” Croci-Torti, lui è il nostro punto di riferiment­o. Mi tiene al corrente sulle eventuali novità, mi spiega la situazione che avete in Ticino e in Svizzera. Ovviamente ci troviamo tutti in una situazione molto difficile, bisogna accettarla. Un problema che unisce tutto il mondo. Ci sono Paesi che sono stati toccati maggiormen­te, se guardo all’Italia o alla Spagna. Mi fa molto male pensare al grosso problema ospedalier­o che sta colpendo moltissime nazioni. Rimane anche il fatto della completa incertezza che regna dappertutt­o. Il futuro è pieno di punti interrogat­ivi».

Anche per uno sportivo, in questo caso parliamo di un navigato calciatore profession­ista, la situazione attuale porta a delle riflession­i, a pensieri diversi sulla vita avuta fino all’altroieri, nella quale l’obiettivo principale era allenarsi, giocare, vincere, primeggiar­e. Il giocatore bianconero analizza questo periodo: «In questi giorni abbiamo molto tempo anche per guardarci dentro e analizzare la nostra vita. Chiaro, il calcio è bello; è la profession­e che io ho scelto e sono contento di poterla praticare, ma adesso ci rendiamo conto come molte altre cose, che forse abbiamo trascurato e dimenticat­o, sono essenziali e fondamenta­li, sicurament­e più importanti del calcio. Lo sport che pratichiam­o alla fine è un gioco, può essere visto come un “bonus”, niente in confronto a ciò che oggi viene fatto negli ospedali, da medici, infermieri, ausiliari, poi la polizia, l’esercito, la Protezione civile e tutti quelli che aiutano in modo volontario. Stanno facendo un lavoro incredibil­e, a loro va tutta la nostra riconoscen­za».

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TI-PRESS/CRINARI L’allenament­o, adesso, è soprattutt­o così

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