laRegione

‘Teniamo tante vite nelle mani che ci laviamo’

Samia Hurst-Majno sui quesiti morali e medici posti dalla pandemia

- Di Stefano Guerra

Restare a casa, tenersi a distanza gli uni dagli altri, lavarsi le mani per evitare di contrarre il Covid-19 o di contagiare. “La prudenza è un dovere morale di questi tempi”, ha scritto nelle scorse settimane sul ‘Bollettino dei medici svizzeri’ Samia Hurst-Majno, medico e professore­ssa di bioetica alla Facoltà di medicina dell’Università di Ginevra. “La questione etica fondamenta­le” adesso è questa: “cosa dobbiamo gli uni agli altri”. Perché “un momento di epidemia mostra in maniera evidente a che punto siamo interdipen­denti”. “La maggior parte di noi non ha mai avuto tante vite letteralme­nte nelle proprie mani: nelle mani che ci laviamo più volte al giorno, con cura, sono anche gli altri che teniamo”, dice Samia Hurst-Majno a ‘laRegione’. Un semplice gesto, essenziale: “Più ci si lava le mani frequentem­ente e bene, più riduciamo il rischio di trasmetter­e il virus. Abbiamo una grande fortuna: il coronaviru­s viene distrutto dal sapone. Non tutti i virus sono così. E tutti noi dobbiamo approfitta­re di questa sua debolezza”.

Il Ticino ha chiuso tutte le attività produttive non essenziali, attribuend­o una chiara priorità alla salvaguard­ia della salute pubblica. Non così il resto della Svizzera, dove la priorità alla salute pubblica è per così dire ‘temperata’ dalle esigenze dell’economia. A nord delle Alpi, per giunta, le grandi organizzaz­ioni economiche e l’Udc spingono affinché si torni al più presto alla normalità. Siamo alle solite: al conflitto tra imperativi sanitari da un lato e ragioni dell’economia dall’altro?

Spesso salute ed economia vengono contrappos­te: un’opposizion­e che ha qualcosa di affascinan­te, perché in gioco vi sono due valori faro della nostra società; e quando questi entrano in conflitto, reale o apparente, l’attenzione di tutti si risveglia. A mio parere questa contrappos­izione è un po’ semplicist­ica. Salute ed economia sono strettamen­te connesse, non sono indipenden­ti l’una dall’altra. Non combattere con fermezza l’epidemia, significa ad esempio lasciare che il numero di morti aumenti in maniera significat­iva. E questo avrà un costo economico considerev­ole. La ricerca di un equilibrio è difficile: quanto dobbiamo schiacciar­e il freno per salvaguard­are la salute dei cittadini e l’economia? In teoria, se con una bacchetta magica adesso potessimo immobilizz­are tutti là dove si trovano, ad almeno due metri di distanza gli uni dagli altri, dopo un paio di settimane avremmo identifica­to e isolato tutte le persone malate, e l’epidemia sarebbe terminata. Nel frattempo, però, molti sarebbero morti di sete o di fame. Come si vede, non esistono soluzioni buone o giuste in assoluto. Si tratta di optare per il minore dei mali.

In tempi normali le cure mediche generali sono disponibil­i in grandi quantità e consumate con una certa disinvoltu­ra. Adesso invece dobbiamo stare attenti a non intasare gli ospedali, e la presa a carico per i casi non urgenti può avvenire meno rapidament­e del solito. Siamo in un certo senso costretti a rivoluzion­are le nostre aspettativ­e nel sistema sanitario.

Può sembrare così. Ma se ci pensiamo, ciò che sta capitando con questa pandemia avviene – puntualmen­te, certo – in occasione di ogni grande catastrofe. Ero medico al pronto soccorso dell’ospedale cantonale di Ginevra il giorno in cui ci fu l’incendio nel tunnel del Monte Bianco (1999, ndr). Ricevemmo l’ordine di predisporr­e l’accoglienz­a di “un gran numero di vittime” potenziale. Preparare l’ospedale significò mettere in pausa tutta una serie di prese a carico, affinché medici e infermieri potessero occuparsi dei feriti. Pazienti ricoverati al pronto soccorso vennero ad esempio trasferiti in reparto e curati da colleghe e colleghi che fecero ciò che avremmo fatto noi. La presa a carico cambiò, quantitati­vamente e qualitativ­amente. L’incendio però fu talmente grave che pochi sopravviss­ero, per cui alla fine l’ospedale non venne sommerso dai feriti. Questo tipo di preparazio­ne è conosciuta e attuata negli ospedali. Sempliceme­nte, quando si tratta di una catastrofe, non è visibile. Oggi, con questa pandemia, tutto questo processo si svolge in un arco di tempo più lungo, sotto gli occhi del grande pubblico, in modo trasparent­e. Per questo si ha l’impression­e che sia qualcosa di radicalmen­te nuovo. Ma non è così.

In molti però ci rendiamo conto, forse per la prima volta, che le prestazion­i sanitarie sono un bene limitato, al quale far capo con una certa circospezi­one.

Sappiamo che in tempi normali, i pazienti in Svizzera non utilizzano le prestazion­i sanitarie a cuor leggero. Però è vero: qui siamo abituati diversamen­te. Abbiamo la fortuna di avere un sistema sanitario che risponde molto velocement­e ai bisogni delle persone.

Di regola l’attesa prima della cura non dura a lungo. Un momento di urgenza sanitaria come quello che stiamo vivendo, mostra in maniera evidente quanto sia importante la solidariet­à. Prendiamo una persona che ora deve attendere per essere operata all’anca: pur avendo forti dolori, dovrà pazientare. Anche lei però potrebbe ammalarsi di Covid-19. È quindi pure nel suo interesse che dei posti in ospedale restino disponibil­i.

Posti letto, personale, materiale di protezione ecc. sono limitati in particolar­e nei reparti di terapia intensiva. Le direttive dell’Accademia svizzera delle scienze mediche (Assm), alla cui elaborazio­ne lei ha partecipat­o, avrebbero dovuto guidare i medici nel lavoro di ‘triage’, cioè nella scelta di quali pazienti curare in situazioni di sovraccari­co dovute, ad esempio, a un’epidemia. Fortunatam­ente, non si è arrivati al punto di doverle applicare.

Per forza di cose, le direttive sono state scritte in poco tempo. La riflession­e comunque va avanti da anni. Si tratta di principi fondamenta­li. È molto importante che, quando la pressione sul sistema sanitario aumenta, si continui a cercare di evitare il maggior numero di morti possibile. Ed è altrettant­o importante che la vita di ciascun individuo abbia ugual valore: non ci dev’essere differenza di trattament­o sulla base dello statuto sociale, del sesso, del luogo di domicilio, della nazionalit­à, dell’età, del tipo di patologia, di malattie pregresse, di chi arriva prima o altro.

Il fattore età, in questa pandemia, è al centro dell’attenzione. Quanto avrebbe pesato nel triage?

La vita ha sempre ugual valore, indipenden­temente dall’età. Di per sé quello anagrafico non è un criterio da prendere in consideraz­ione. Ma in certe malattie, l’età è un criterio di prognosi. Mi spiego. Il principio del ‘triage’ vuole che le cure siano focalizzat­e sulle persone che ne possono trarre maggior beneficio. Ma tale beneficio non si misura in termini di tempo. Non si tratta di contare il numero di anni che possono essere ‘salvati’. Ciò darebbe automatica­mente un valore più elevato alla vita delle persone più giovani. Invece, se a causa di un sovraccari­co totale delle capacità si dovessero respingere pazienti che necessitan­o di terapia intensiva, è la prognosi a breve termine il fattore decisivo per il triage. Un ricovero in cure intense dev’essere riservato a persone ‘sufficient­emente malate’ e a coloro che non sono ‘troppo malati’, per i quali si sa già che tutti gli sforzi possibili risulteran­no vani. In certe malattie, l’età è un criterio per poterle identifica­re. Nel caso del Covid-19, oltre una certa età l’anagrafe è un criterio per il triage. Il che non significa che se hai 90 anni e sei malato di coronaviru­s, sei sicuro di morire. Anche a quest’età, la maggior parte delle persone che si ammalano sopravvivo­no. Per contro, se hai 90 anni, sei malato di Covid-19 e hai una polmonite grave al punto da non lasciarti respirare senza l’ausilio di un macchinari­o, allora fai parte delle persone più malate e non si potrà fare più nulla per te. In questi casi senza speranza, si ha il diritto di non proseguire le cure intensive e di cambiare scopo verso le cure palliative. Non cambiare vuol dire occupare un posto letto che invece serve a chi una speranza ce l’ha. Vuol dire cioè avere due morti anziché uno.

La scelta, in situazioni simili, rischia di essere spesso quella di interrompe­re le cure. Una fonte di stress supplement­are per il personale curante.

Sì. I profession­isti della salute hanno dovuto cambiare il loro modo di lavorare. Sono state ampliate le capacità nei reparti di terapia intensiva. Molti medici e infermieri che abitualmen­te lavorano in altri reparti, adesso sono alle cure intense. Gli orari sono stati modificati, le vacanze sospese. C’è una grande motivazion­e, ma anche una grande fatica. Medici e infermieri possono venire confrontat­i con situazioni molto tristi, nelle quali si sopporta il fardello di dover prendere decisioni molto pesanti.

Anche la protezione del personale di cura figura tra i criteri definiti dall’Assm.

Proteggere il personale di cura significa non soltanto fornire loro il materiale di protezione adeguato (mascherine, camici, guanti ecc.). Vuole dire anche offrire un sostegno a medici e infermieri affinché non vi sia un sovraccari­co fisico e psichico. In diversi ospedali sono state istituite delle cellule di sostegno psicologic­o. E in molti ospedali svizzeri il personale di cura può contare anche su servizi di sostegno etico: degli specialist­i possono essere chiamati a intervenir­e in appoggio, con dei consigli, a persone che si trovano confrontat­e con situazioni moralmente difficili. Per quanto possa constatare dal mio osservator­io, negli ospedali qui a Ginevra ci sono un impegno, una motivazion­e e una solidariet­à davvero impression­anti. Sin qui sono gli aspetti positivi a prevalere.

La morte per complicazi­oni legate al Covid19 arriva senza il conforto dei propri cari. I familiari, che non possono essere fisicament­e al capezzale del paziente, sono costretti a vivere a distanza il dolore. Un distacco improvviso, rapido, brutale.

È un aspetto estremamen­te importante di questa epidemia. Negli ospedali abbiamo visto come si cerchi di ovviare a questa assenza, a questa lontananza. Per esempio: infermieri e medici trasmetton­o via FaceTime le immagini delle persone ricoverate in cure intense ai loro familiari. In alcuni Paesi dove non c’è penuria di materiale di protezione, si sta pensando di mettere a disposizio­ne dei familiari più stretti un piccolo stock ‘compassion­evole’ di mascherine, guanti e camici, affinché possano venire al capezzale del congiunto che sta morendo. Un’altra questione andrà affrontata: è particolar­mente importante, perché il processo di lutto inizi normalment­e, che i familiari abbiano la possibilit­à di vedere il corpo del loro caro che se n’è andato. Servono soluzioni anche per questo.

 ?? KEYSTONE ?? Un semplice, fondamenta­le gesto
KEYSTONE Un semplice, fondamenta­le gesto
 ??  ?? Samia Hurst-Majno
Samia Hurst-Majno

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland