laRegione

L’Africa si prepari al peggio

Intervista a Caterina Roggero, dell’Università Milano Bicocca, sugli effetti della pandemia

- Di Erminio Ferrari

“Il miglior consiglio da dare all’Africa è quello di prepararsi al peggio e prepararsi sin da oggi”. Il ‘consiglio’ di Tedros Adhanom Ghebreyesu­s è della settimana scorsa e rischia di essere già sorpassato dagli eventi. Ma l’allarme del direttore generale dell’Organizzaz­ione mondiale della sanità (Oms) non poteva essere più netto. Se l’Africa è stata infatti l’ultima parte del mondo a essere investita dalla pandemia di Covid-19, l’impatto del contagio – portato soprattutt­o da viaggiator­i di ritorno provenient­i da Asia, Europa e Stati Uniti – rischia di esservi ancora più devastante.

Parliamo di un continente abitato da un miliardo e trecento milioni di persone, dove tuttavia, secondo i dati dell’Ispi, è presente solo il 3% del personale medico mondiale. Vale a dire, per capirci, che in Kenya (certamente non il Paese messo peggio) c’è un solo medico ogni cinquemila abitanti. Ma si pensi anche a come possa venire praticato il ‘distanziam­ento sociale’, reputato determinan­te per impedire il contagio, negli slum delle grandi metropoli del continente, la cui densità abitativa è altissima; o come si possa attenersi alla raccomanda­zione di lavarsi e disinfetta­rsi spesso le mani in realtà in cui l’accesso all’acqua corrente è ancora per lo più un lusso.

Le stesse misure di contenimen­to sono di ben difficile applicazio­ne. Se Sudafrica e Ruanda hanno introdotto l’isolamento totale, il Senegal ha per primo chiuso scuole e università. Anche la Nigeria ha imposto la quarantena a Lagos e Abuja, mai successo prima, ma si immagini che cosa significhi un blocco dei movimenti nelle aree dove infuria la guerriglia islamista.

Dal primo caso riconosciu­to, in Egitto il 14 febbraio, la progressio­ne dei contagi non si è più fermata, arrivando ormai a interessar­e tutti i Paesi africani. L’ultimo aggiorname­nto parla di quasi quindicimi­la contagiati e poco meno di ottocento morti, con un incremento dei casi di almeno il 51%. La fragilità dei sistemi sanitari nazionali, già sottoposti a pressione da altre epidemie e dalle patologie legate alla povertà, difficilme­nte potrà reggere alla sollecitaz­ione di una pandemia, ha osservato l’Oms. Pandemia che forse è già in corso, ma non viene ancora riconosciu­ta, se è vero ciò che ha detto Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano: “I numeri sono certamente sottostima­ti”.

Uno scenario di cui abbiamo parlato con Caterina Roggero, che ha fatto dell’Africa, del Nord Africa in particolar­e, la propria materia di studio e di insegnamen­to all’Università degli Studi di Milano Bicocca; il suo ultimo libro è: ‘Storia del Nord Africa indipenden­te. Tra imperialis­mi, nazionalis­mi, autoritari­smi’, Bompiani, Milano 2019.

I Paesi del Nord Africa, insieme al Sudafrica, ha scritto recentemen­te per Ispi online, sono il principale portale d’accesso del Covid-19 in Africa. Di quali strumenti (in senso lato: legislativ­i, di strutture, di cultura sanitaria) dispongono per farvi fronte?

I dati che ho riportato vengono da uno studio di un centro di ricerca della Sorbona, precedenti l’ingresso del Covid-19 in Africa, condotto per valutare gli scenari possibili in vista di una eventuale epidemia. In effetti i ricercator­i avevano visto giusto, individuan­do in Algeria, Egitto e Sudafrica i gate d’ingresso del virus, considerat­i i loro frequenti contatti commercial­i e aerei con la Cina e le regioni infette. In realtà il primo paziente riconosciu­to in Algeria è stato un cittadino italiano legato al commercio di idrocarbur­i, ciò che non stupisce, e semmai conferma che i collegamen­ti e l’interscamb­io con l’Europa sono stati più importanti per la diffusione del Covid-19.

Lo stesso studio esaminava la capacità di questi Paesi di far fronte all’arrivo del contagio, basandola su serie di dati dalla legislazio­ne, alla conformità alle disposizio­ni dell’Oms, al livello del sistema sanitario, comprese la capacità dei laboratori, la dotazione dei centri di cura, la preparazio­ne e il numero del personale, la sicurezza alimentare.

Si è constatato che Egitto e Algeria sono stati maggiormen­te colpiti, con tassi di mortalità tra il 6 e l’11%, mentre in Sudafrica è allo 0,6%. In termini assoluti il numero dei morti è ben inferiore a quello europeo o statuniten­se, ma va detto che siamo solo all’inizio della penetrazio­ne in Africa del Covid-19.

Nel continente il numero dei contagiati (aggiornato a lunedì) è arrivato a 14’528. I morti sono 788 e le persone guarite dal Covid-19 2’570. ‘Pochi’ rispetto a Cina, Europa, Iran, Stati Uniti. È solo perché il diffonders­i del contagio è, come precisava lei, soltanto all’inizio, o perché le difficoltà di effettuare i test e di conteggiar­e i contagi reali hanno come conseguenz­a una sottostima del fenomeno?

In effetti il discorso per l’Africa centrale e subsaharia­na è diverso, e non solo perché in quelle aree il contagio non è ancora a un livello di epidemia allargata. Il timore maggiore in questo caso riguarda la capacità di risposta dei sistemi sanitari locali. Vi sono molti fattori da considerar­e, ma tutti sono riassumibi­li nel livello di povertà che ne determina la debolezza e l’insufficie­nza. Il Sudafrica dispone di mille letti in terapia intensiva, su una popolazion­e di 56 milioni; pochi per un Paese sviluppato, ma si consideri che la Repubblica Democratic­a del Congo ne ha solo 20 su una popolazion­e di 84 milioni.

È in queste condizioni che l’Africa sta cercando di prevenire il contagio e disporsi alla cura, ma si può anche osservare che forse un modesto vantaggio le deriva dal fattore tempo, dal ritardo,cioè, con cui il virus si sta manifestan­do nel continente. Ciò non diminuisce tuttavia la preoccupaz­ione per quanto potrà essere distruttiv­a la pandemia quando il contagio colpirà megalopoli come Kinshasa o i grandi agglomerat­i urbani, dove la densità abitativa è elevatissi­ma.

Le ripercussi­oni saranno in ogni caso pesanti e sono già ora evidenti in un continente in crescita vivace, che subisce come il resto del mondo quello che accade in una economia globalizza­ta. Si pensi, per averne un’idea, che la Cina, primo partner commercial­e del continente, ha ridotto del 20% la richiesta di petrolio, con le conseguenz­e immaginabi­li sulle economie di Paesi come Algeria, Nigeria, Angola.

Cina che da tempo fa incetta di materie prime in Africa...

Lo sappiamo, certo. Ma le ripercussi­oni economiche possono seguire un percorso inverso: provi a immaginare le conseguenz­e di una diffusione del contagio in Congo, da cui provengono le materie prime indispensa­bili per le nostre tecnologie informatic­he, dagli smartphone ai computer, e a come una interruzio­ne della fornitura ricadrebbe sulla nostra economia.

Una condizione senza rimedio?

Una condizione gravissima, ma stiamo pur parlando di un continente in piena crescita, dove l’età media della popolazion­e (20 anni) è assolutame­nte inferiore alla nostra, e che dispone di risorse interne e di esperienza importanti. I Paesi africani hanno già conosciuto precedenti epidemie gravissime, con livelli di mortalità ben più elevati del Covid-19, dall’Hiv, al vaiolo a Ebola. Se dunque è vero che il coronaviru­s potrebbe risultare disastroso quale elemento di comorbilit­à in persone già ammalate, è pur vero che proprio l’esperienza acquisita nel corso delle epidemie precedenti potrebbe risultare utilissima. In molti Paesi sono state sviluppate conoscenze importanti e aperti centri di diagnosi e di ricerca all’altezza, come il Centro africano di eccellenza in genomica e malattie infettive nigeriano – uno dei primi ad aver trovato la sequenza del genoma del Covid-19 – oppure il progetto varato dall’Unione Africana, e capeggiato da Marocco, Sudafrica, Senegal, Nigeria e Kenya, che si occuperà di monitorare la situazione del contagio. Ancora all’inizio di gennaio i centri diagnostic­i erano solo due in tutta l’Africa (in Sudafrica e Senegal), oggi sono già 43: una risposta preventiva che cerca di essere all’altezza. Né vanno trascurate le parole del presidente senegalese Macky Sall, che ha chiesto di ridiscuter­e il debito pubblico dei Paesi africani nei confronti di Fondo monetario internazio­nale e Banca Mondiale, rilevando che se il concetto “dal virus si esce tutti insieme” è valido per l’Europa, tanto più lo deve essere per l’Africa.

Infine: dal Nord Africa prendono il mare i migranti che cercano di raggiunger­e l’Europa. Vi sono dati su una relazione tra l’epidemia e i tentativi di partenze?

Non ho dati. Però è utile ancora rilevare che la crisi si rifletterà in diverse forme sui Paesi africani. Intanto la sua industria del turismo ne verrà penalizzat­a. La Tunisia, ad esempio, aveva appena ricomincia­to ad accogliere turisti, e per quest’anno ne aspettava dieci milioni, che difficilme­nte arriverann­o. E pensi anche alle rimesse dei migranti nei Paesi di provenienz­a, che si dice valgano il triplo degli aiuti internazio­nali. La mancanza di lavoro nei Paesi di immigrazio­ne ne determiner­à un calo drastico. E i problemi si aggiungera­nno ai problemi.

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KEYSTONE Distanze impossibil­i
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KEYSTONE Un continente giovane

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