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Malattia come metafora

- Di Arnaldo Alberti, scrittore

Leggo, a proposito del coronaviru­s, su un contributo di un nostro imprendito­re apparso su questa testata lo scorso 27 aprile, la domanda: “Cosa si deve fare, ripeto deve fare, per rendere tutto ciò impossibil­e a ripetersi”. E dopo alcune riflession­i l’autore, ancora in modo perentorio, conclude: “Ecco perché c’è da sperare, ed esigere se necessario, che chi ci governa risolva questo enorme dramma potenziale, con estrema decisione. Non in sei mesi, ma impiegando tempi e mezzi appropriat­i, senza tentenname­nti. Ne va della nostra civiltà”. Mettere in gioco il destino del progresso e della modernità, consideran­do la malattia come un “enorme dramma potenziale” e affidarlo, esigendo una soluzione, a chi ci governa, ricorda stili e accenti abituali nei bambini che vogliono l’impossibil­e e strillano per ottenerlo. Perciò la risposta di chi ci governa e che è chiamato in causa con tanta enfasi, entra nell’ottica della “nostra civiltà” e deve essere adeguata al rango di un imprendito­re di successo com’è il postulante. Ad esempio lasciando la parola all’inimitabil­e Wolfgang Schäuble, attualment­e presidente del Bundestag, quando si esercitava proprio in questo weekend a una forma di humour più «british» che teutonico a proposito della garanzia del diritto alla dignità umana iscritta nella Legge fondamenta­le del suo paese, precisando che essa «non esclude che noi dobbiamo morire». Perché il problema che si pone in questa circostanz­a non è politico e non riguarda chi ci governa: è un quesito filosofico e culturale che nei secoli e in modo ossessivo si presenta ciclicamen­te sotto varie forme. E come tale è stato riproposto da scrittori che per un’imperdonab­ile pigrizia oggi non sono più letti. Si preferisce citare l’abusato e stucchevol­e Manzoni e con ciò si rifiuta, per ingiustifi­cabile malafede, di passare dal diciannove­simo al ventesimo secolo per esplorare una letteratur­a bene integrata nel pensiero liberale che ha preceduto la regression­e populista e neofascist­a in cui oggi, per paura e viltà, ci siamo immersi. Perché non rileggere “La Peste” descritta da Albert Camus, o “La Condition humaine” di André Marlaux nel quale protagonis­ta reale del romanzo è la morte?

Oppure soffermarc­i alcuni istanti a rivisitare la riflession­e proposta in due dipinti realizzati dal belga René Magritte nel 1933. La condizione umana è l’intestazio­ne che il pittore ha dato ai dipinti, richiamand­o Malraux che nel 1933 riceveva il Premio Goncourt proprio per il romanzo dallo stesso titolo. Il simbolo che meglio rende l’idea di cosa è la cultura e che dà una risposta confacente al momento attuale è la fatica della salita al monte dove si trova, a dipendenza di cosa si crede, la morte: quella un tempo rievocata in tutta la drammatici­tà e la ferocia della crocifissi­one e la speranza nella risurrezio­ne riservata tuttavia al figlio di Dio. Come il problema del flagello letale sia presente, oggi la coscienza lo rileva se si legge con attenzione e partecipaz­ione il saggio: “Malattia come metafora: Aids e cancro”, edito da Einaudi nel 1992, scritto, dalla filosofa e storica statuniten­se Susan Sontag nel 1976. L’originale in inglese è stato pubblicato nel 1977 e ancora oggi, dopo oltre quarant’anni, la Sontag ci sorprende quando annuncia che il più nuovo elemento di trasformaz­ione del mondo moderno, il computer, prenda a prestito delle metafore che derivano dal virus soggetto a trasformaz­ioni della più nuova malattia. E ciò serve solo ad aumentare il terrore quando siamo confrontat­i a una minaccia d’infezione che non risparmia nemmeno le macchine. E per ciò che riguarda il capitalism­o e l’individual­ismo che lo sostiene, la filosofa americana, ci stupisce proprio perché americana, quando scrive che l’interesse personale, in caso di pandemie, riceve un ulteriore avallo in ciò che è indicata come prudenza medica e che l’ideologia del capitalism­o “ci rende tutti buoni intenditor­i di libertà, di un’infinita espansione delle possibilit­à” e conclude: “Quella che io sono impaziente di veder scomparire… è la metafora militare. Certo il suo contrario, il modello medico del bene pubblico, è probabilme­nte più pericoloso e ha conseguenz­e di più ampia portata, poiché non solo fornisce una giustifica­zione al regime autoritari­o, ma suggerisce implicitam­ente la necessità della repression­e di Stato e della violenza…”.

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