I topi grigi. Quando la serie era muta
Se dovessi stilare una classifica dei generi di conforto venuti in mio soccorso nelle scorse settimane così poco confortevoli (o sconfortanti tout court) inserirei nelle primissime posizioni la benemerita iniziativa della Cineteca di Milano (cinetecamilano.it), che dall’inizio della quarantena ha messo a disposizione, in streaming, i propri archivi. Cosa che per un cinefilo equivale pressapoco ad avere accesso alla caverna di Alì Babà. Ora, fra gli inestimabili gioielli ivi contenuti, la mia attenzione è stata – significativamente – attratta dalle serie I topi grigi: un feuilleton in otto episodi prodotto fra il 1916 e il 1918 al confronto del quale, quanto meno nella sensibilità della scrivente, Netflix ed HBO hanno ben poco da aggiungere.
Brevi note storiche
Breve digressione para-didattica: il “feuilleton”, detto anche romanzo d’appendice, è quel genere letterario di bassa levatura e grande effetto (il cosiddetto “effettaccio”) che veniva pubblicato a puntate su giornali (preferibilmente scandalistici) a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino all’inizio del secolo scorso. Caratterizzato, come puntualizza la Treccani, da “narrazioni fitte di vicende, di personaggi e di colpi di scena, rivolte al coinvolgimento emotivo di un pubblico vasto e in genere non colto”, il romanzo d’appendice ha fra i suoi massimi eponimi la leggendaria Carolina Invernizio, passata alla storia per titoli quali Il bacio
d’una morta (1886), L’orfana del ghetto (1887), Ij delit d’na
bela fia (I delitti di una bella ragazza), in piemontese, a puntate ne “’l Birichin” (1889-1890), fino a L’impiccato
delle cascine (1906). Si tratta insomma di quel tipo di produzione che negli anni Novanta sarebbe stata intellettualisticamente nobilitata con l’etichetta di “pulp” anche se, con tutto il rispetto per Tarantino, Rodriguez e compagnia bella, l’Invernizio rimane a mio parere abbastanza insuperata.
Un simpatico farabutto
Ma torniamo ai Topi grigi, trasposizione cinematografica del genere a opera di Emilio Ghione: divo del primo cinema muto che ebbe in Italia una breve, seppure intensa, stagione, destinato com’era a essere spazzato via di lì a poco dai giganti dell’espressionismo tedesco e, quasi in contemporanea, da quello star-system che all’epoca si chiamava ancora Hollywoodland. Nonostante la povertà di mezzi, economici se non espressivi – ricordiamo che, all’avvento del sonoro, la prima generazione di star, estromesse dal sistema, affermavano rancorosamente che i parvenu dotati di parola non sapessero recitare; e secondo me avevano ragione –, I topi grigi appassiona lo spettatore e lo tiene inchiodato a un susseguirsi di peripezie del tutto inverosimili e a momenti francamente assurde.
Gli eroi della vicenda sono “Za la Mort”– interpretato appunto dal Ghione, che è anche regista e talvolta sceneggiatore (sembra si trattasse di un personaggio un poco megalomane) – e la sua fidanzata, “Za la Vie”. I “topi grigi” del titolo sono invece una banda di delinquenti che hanno il loro quartier generale nelle fogne di Parigi (e dove sennò?) e che formano una sorta di corte dei miracoli capeggiata dallo spregevole “Grigione”, di cui sono particolarmente degne di nota – oltre all’amputazione del dito indice della mano destra – le elegantissime calzature con ghette.
La figura di Za la Mort s’ispira ad alcuni personaggi letterari francesi, popolarissimi all’epoca, quali Fantômas e Arsène Lupin, che definiscono l’archetipo del farabutto simpatico, o del ladro gentiluomo, il quale infrange la legge ma è provvisto di un codice d’onore che lo rende caro agli spettatori dal cuore segretamente sovversivo. Ecco, Za la Mort è un po’ il Fantômas de
noialtri: sbruffone ma generoso, ladro che ruba ai ricchi per dare ai poveri (vedi episodio n. 6, “Aristocrazia canaglia”), di frequentazioni equivoche ma con una sua etica inossidabile, il nostro eroe passa attraverso incredibili disavventure riuscendo sempre a sfangarla e riemergendo, ogni volta, più gagliardo di prima.
Altre perle in arrivo?
La storia è organizzata secondo il principio cardine della serialità: ogni episodio termina in un punto che lascia lo spettatore con il fiato sospeso, agganciandolo saldamente all’attesa della puntata successiva. Gli stilemi del genere ci sono tutti, gustosissimi per i cultori della materia: rampolli di nobili casate rapiti da bambini, che crescono ignari delle proprie origini; misteriose buste nere; contesse efferate; sopraintendenti corrotti; chèque da un milione; botole, doppi fondi, sigarette drogate, balli in maschera e travestimenti. Non mancano escursioni esotiche in un improbabile Sudamerica e presso sperduti atolli popolati da tribù antropofaghe, che forniscono il pretesto per esibire un certo numero di seni nudi (l’exploitation del corpo femminile risale, com’è noto, agli albori della settima arte) e disseminare velate allusioni a pratiche sessuali poco ortodosse. Insomma, nel complesso, uno spasso. Efficacemente accompagnato da una brillante colonna sonora composta in tempi più recenti (sospetto a opera dei Calibro 35, ma nei credits non è riportato), i Topi grigi sono seriamente candidati a diventare una delle mie serie preferite. Peccato ci sia una sola stagione, ma la Cineteca, che non delude mai i propri affezionati e bizzarri frequentatori, è già corsa ai ripari proponendo in questi giorni la versione restaurata di Le fiacre n° 13, serial poliziesco del 1917. L’aspettativa, naturalmente, è alle stelle...