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La solitudine e il ruolo degli infermieri

Ne abbiamo parlato con l’infermiera vincitrice del premio Venka Miletic nel 2019

- Di Samantha Ghisla

Gli anziani residenti in istituto possono sentirsi soli a prescinder­e dal coronaviru­s. Ne abbiamo parlato con un’infermiera che ha trattato il tema vincendo un premio.

La solitudine in casa anziani è diventata un tema d’attualità a causa della situazione straordina­ria generata dalla pandemia da coronaviru­s. Oltre alla sofferenza di chi ha contratto il virus e, in certi casi, non ce l’ha fatta, i residenti delle case anziani si sono anche confrontat­i con l’impossibil­ità di ricevere le visite dei propri cari. Molti istituti si sono attivati mettendo a disposizio­ne dei supporti elettronic­i per fare videochiam­ate e, nell’ultimo periodo, proponendo visite attraverso i vetri o all’aperto mantenendo le distanze. Un ruolo attivo ce l’ha avuto però il personale sanitario che è stato loro vicino. Il tema non è nuovo a Chiara Saldarini, attualment­e impiegata quale infermiera presso l’Eoc, che nel 2019 ha vinto il Premio Venka Miletic elargito dalla Fondazione Sasso Corbaro di Bellinzona per la sua tesi di diploma. “Solitudine: deserto o giardino? La solitudine dell’anziano nel contesto di cura della casa per anziani e la figura infermieri­stica” è il titolo della ricerca, sulla quale le abbiamo posto alcune domande.

«La solitudine, come stato di chi è solo, è un fenomeno ricercato e approfondi­to sin dai secoli passati e oggi ancora studiato per poterne capire il senso più profondo», spiega l’infermiera, che precisa: «Secondo vari studiosi il termine solitudine ha due accezioni: una positiva legata al concetto di possibilit­à, occasione e scelta e una negativa riferita allo stato in cui la persona soffre in modo indesidera­to e soprattutt­o involontar­io». Tenuto conto di questo, Saldarini ritiene che tutta la popolazion­e anziana residente nei vari istituti viva il sentimento di solitudine, con le dovute distinzion­i. «Da una parte penso agli anziani a cui non è stata data scelta e per cause esterne, come l’imposizion­e da parte dei familiari o il peggiorame­nto di patologie terminali, sono stati ricoverati definitiva­mente presso una struttura di cura; in questo caso il sentimento a loro riferito è legato a una sfera negativa e di sofferenza – spiega la nostra interlocut­rice –. A mio avviso, invece, la persona anziana potrebbe anche scegliere di andare a vivere in una struttura per mancanza di tessuto sociale all’esterno, per avere maggior possibilit­à di cura e per ritrovare la propria identità di persona che spesso con il pensioname­nto viene in qualche modo a mancare, ma che negli ultimi anni della vita è fondamenta­le per mantenere una buona qualità di vita. In questo caso parlerei di solitudine positiva, ovvero la possibilit­à di conoscersi, di vivere pienamente la vita ma soprattutt­o di essere capaci di integrare nel proprio io il concetto di stare soli».

Che ruolo deve avere a tal proposito il personale infermieri­stico?

Credo che la prima capacità che un curante debba avere sia quella di comprender­e e anticipare la solitudine. Mi spiego meglio: un infermiere dovrebbe essere in grado, conoscendo la persona anziana residente, di essere garante della salute e del benessere e quindi di riuscire ad arginare la condizione di solitudine “negativa” che spaventa e fa soffrire, e allo stesso tempo favorirne una “positiva” che dia valore alla vita. Il “biglietto da visita” che tutti i curanti dovrebbero avere è una profonda capacità empatica che permetta di entrare in comunicazi­one con l’anziano, ma in generale anche nelle diverse altre fasce d’età, con lo scopo di creare rapporti di fiducia che permettano di conoscere e saper intervenir­e quando necessario.

Per la tesi si è occupata anche di casi o di momenti (come quello attuale) in cui i residenti non hanno la possibilit­à di interagire dal vivo con i propri familiari?

Sì, questa condizione capita e non di rado… Spesso mi sono confrontat­a con situazioni in cui il ricovero della persona anziana, anche in ambiente ospedalier­o e non solo relativo alle case anziani, avviene senza che la famiglia ne sia in prima persona al corrente. Penso a tutti quegli anziani che vivono normalment­e soli poiché i familiari sono lontani e che, per una caduta o un malore, si trovano, in un battito di ciglia, ricoverati, soli e impauriti. Spesso le famiglie, per motivi personali o di lavoro, non hanno la possibilit­à di spostarsi in modo così repentino e quindi sono i curanti a dover fare da tramite e a sostenere i malati nel momento del bisogno. Capita anche nei momenti di fine vita di non avere la possibilit­à di una vicinanza dei familiari. Questo comporta che i curanti siano d’aiuto in primo luogo alla persona che sta concludend­o la vita, cercando di garantirle il massimo comfort e la migliore qualità di vita, ma anche alla famiglia come sostegno per l’elaborazio­ne del lutto essendo purtroppo privata delle visite, della vicinanza al proprio caro e di tutto ciò che sarebbe d’aiuto in un momento così delicato e difficile.

Si tratta di situazioni molto difficili per pazienti e famiglie ma anche per i curanti...

Sicurament­e sì, ma al tempo stesso ci permettono di mostrare disponibil­ità in situazioni complesse, di facilitare in qualche modo l’espression­e del dolore accompagna­to dalla disperazio­ne e dalla paura o più sempliceme­nte di condivider­e successi e l’otteniment­o di traguardi. Ciò che emerge maggiormen­te è la capacità degli infermieri di sostenere le famiglie, di stimolare le emozioni e di suggerire, nonostante l’impossibil­ità di incontrare il proprio caro, di parlare e di comunicare magari anche cose che prima non si ha mai avuto il coraggio di dire.

Quale significat­o ha il riferiment­o al deserto e al giardino nel titolo della tesi?

Ho voluto utilizzare questa espression­e perché penso sia la sintesi, il cuore centrale della mia tesi. Ho sempre pensato che “deserto” potesse essere l’immagine più adatta per indicare il concetto sopracitat­o di solitudine negativa, la parte arida, sofferta e dolorosa dello stare soli; quella che non dà spazio al proprio essere e anzi, cerca di soffocarlo e ostacolarl­o. Dall’altra parte “giardino” si rifà alla solitudine positiva, quella possibilit­à, quel momento di scoperta della parte più nascosta dell’essere umano, quel motivo per riscoprire le proprie passioni e dare piena espansione alle idee; il vivere appieno e profondame­nte la vita con sé stessi.

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TI-PRESS Nel riquadro Chiara Saldarini, attualment­e impiegata quale infermiera presso l'Eoc

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