laRegione

Il Covid-19 e il sisma nella sanità

- di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

Non poteva di certo chiamarsi fuori dagli effetti sismici della pandemia. Il sistema sanitario mondiale ha mostrato tutte le sue insufficie­nze struttural­i. Che penalizzan­o i Paesi poveri, favoriscon­o quelli più ricchi e mettono in pericolo ovunque la sovranità sanitaria delle nazioni. Nel libero mercato mondiale di medici e personale infermieri­stico, più che una mano invisibile, a regolare i flussi ci pensano gli interessi egoistici degli Stati e la sperequazi­one dei redditi. Medici indiani, pachistani o iracheni che emigrano in massa nel Regno Unito, dottori maghrebini formati in Marocco o Algeria che esercitano in Francia, polacchi, ungheresi o rumeni che aprono i loro studi in Germania, mentre un’ondata di medici tedeschi è arrivata nell’ultimo decennio in Svizzera attratta da redditi ben maggiori. Secondo la Federazion­e Svizzera dei Medici (FMH) la percentual­e di dottori stranieri supera il 30%. La colossale tosatura di personale medico a danno dei Paesi più poveri è in molti casi impietosa: più della metà dei medici somali o dello Zimbabwe esercita oggi all’estero. Il Dr. Franco Cavalli, in trincea nella battaglia per riequilibr­are le plateali storture nel nostro sistema, punta il dito contro il numerus clausus che impone allo studente stravagant­i esami ghigliotti­na “multichoic­e” i quali mirano unicamente a limitare il numero dei medici formati da noi. Sì perché, secondo i dati che ci fornisce l’oncologo, uno studente in medicina costa tra i 750mila e 1 milione di franchi. Che nel sistema universita­rio svizzero sono in gran parte a carico dei Cantoni. I 200 milioni di aiuti sbloccati dalla Confederaz­ione (in questo contesto si inserisce la nuova facoltà di biomedicin­a che aprirà in settembre all’Usi) non basteranno di certo. Ogni anno dalle nostre università escono 1’200 medici, ma è una cifra doppia quella che fotografa i bisogni reali. Importare personale dall’estero, Germania, Italia o Francia, consente di colmare il gap a costo zero. Non molto diversa la situazione sul fronte del personale infermieri­stico: il tasso di stranieri supera il 50% nell’arco lemanico, mentre in Ticino tra cliniche, ospedali, case per anziani si raggiunge circa il 40%. Un’iniziativa popolare, già oggetto di un controprog­etto al Consiglio nazionale e che sarà fra poco sul banco degli Stati, mira ad aumentare finanziame­nti, aumentare gli stipendi, imporre un CCL e con un’ordinanza un numero minimo di infermiere nei diversi reparti. Che alla base di queste richieste vi siano anche personalit­à conservatr­ici, come il consiglier­e nazionale bernese Udc Rudolf Joder la dice lunga sull’urgenza di una riforma radicale. Bisogna correre ai ripari: entro il 2030 in Svizzera mancherann­o, stando a uno studio, ben 30mila infermiere e infermieri. La teoria della domanda indotta, in voga negli anni 90, mostra oggi tutti i suoi limiti: si pensava che contingent­ando il numero di medici si sarebbe contenuto anche il consumo di medicina da parte dei pazienti, riducendo di riflesso i costi. Ipotesi che non aveva fatto i conti con l’invecchiam­ento della popolazion­e o l’aumento delle malattie croniche. La pandemia ci ricorda quanto settori chiave della società, dall’educazione alla sanità, non debbano essere lasciati in balia di quei principi economici e ideologici, quelli del libero mercato, che possono semmai funzionare e pure creare ricchezza in altri ambiti dell’economia.

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