laRegione

Liberazion­e e improvvisa­zione

- di Lorenzo Erroi

La liberazion­e della volontaria italiana Silvia Romano – dopo 18 mesi di prigionia nelle mani dei tagliagole di Al-Shabaab – si sarebbe dovuta salutare con un semplice “ah, che bello!”, un gran sorriso e un sospiro di sollievo. Invece si è trasformat­a nell’ennesima dimostrazi­one di come l’Italia sia in mano a una classe dirigente popolata in larga misura da cialtroni, in politica come nei media. Giornali e tivù si sono subito affrettati a disquisire sui motivi della sua conversion­e all’Islam, sollevati dall’idea di poter cambiare per un attimo il camice da finto epidemiolo­go coi panni degli psicologi e degli esperti d’Islam, come sempre da bar (brandendo casomai la “sindrome di Stoccolma”, un classico). D’altronde, l’occasione era troppo allettante: il voyeurismo nei confronti d’una ragazza partita in pantalonci­ni e tornata col velo “prende clic”, e pazienza se mancano tutti gli elementi per una riflession­e più seria. Certo, non sarebbe stato lo stesso se a tornare convertito fosse stato un maschietto: è già successo un paio di volte che (...)

(...) degli ostaggi uomini rientrasse­ro musulmani, perfino radicalizz­ati, e nessuno ne ha mai parlato più di tanto. Però è ovvio che far la lezioncina alla ‘ragazzina’, rimestar nel torbido accostando foto vecchie e nuove nei boxini web, scatena fregole ben note.

Ma nel caso di Romano a peggiorare la cosa, e di svariati ordini di grandezza, è stato il comportame­nto inqualific­abile del governo italiano. Che ha deciso di spettacola­rizzare la liberazion­e trasforman­dola nel solito video della prima comunione, con tanto di fotografi schierati, discorsett­i strappalac­rime, tricche-tracche e castagnole: casomai l’emergenza coronaviru­s vi avesse fatto credere a un Giuseppe Conte statista, bentornati sul pianeta Terra. L’avvocatino del popolo non si è neanche degnato di negare fermamente le voci sul pagamento di un ingente riscatto, come vorrebbe l’etichetta. Così facendo ha regalato il pallone a quelli che “i nostri muoiono di fame e dobbiamo anche mantenere jihadisti, vergogna!” (che poi fateci caso: sono gli stessi che a ogni barcone di migranti berciano “aiutiamoli a casa loro”, proprio quello che cercava di fare Romano). E naturalmen­te ha ridato fiato a chi fa paragoni strampalat­i tra lo Stato che non tratta coi sequestrat­ori di Aldo Moro, o con l’Anonima sarda, e quello stesso Stato che invece si siede al tavolo con Al-Shabaab. Come se la politica estera – condotta in una giungla hobbesiana dove comanda la forza e nessuno è sovrano se non di sé stesso – avesse le stesse regole di quella interna. A scanso di equivoci: i riscatti internazio­nali li pagano tutti, non solo l’Italia, con l’eccezione comunque controvers­a e non sempre coerente di Usa, Israele e pochi altri. Poi però normalment­e si riporta la gente in patria senza operette, si smentisce e si passa ad altro.

Proprio come si sarebbe dovuto fare anche stavolta. Per rispettare e proteggere servizi segreti tra i più abili al mondo, sapendo che per definizion­e meno se ne parla e meglio lavorano (non per portar rogna, ma vi siete mai chiesti perché a Roma non è mai successo un Bataclan? Un aiutino: la risposta non è “Luigi Di Maio”). Ma soprattutt­o perché adesso, liberata dai suoi sequestrat­ori, Romano è finita ostaggio di insulti e minacce, un assedio di rancore troppo strutturat­o per pensare che sia solo “indiniazzi­one” popolare, e non ci siano dietro i soliti referenti politici. Peraltro, di questa monumental­e pagliaccia­ta gode anche il fronte jihadista: non c’era modo migliore per far sapere anche all’ultimo pastore di montoni col kalashniko­v che se ti porti via un italiano, Roma paga (e ci mancherebb­e altro). Insomma: un altro ottimo lavoro del governo del cambiament­o, e del suo codazzo di megafoni e imbrattaca­rte. Bravi davvero.

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