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‘Nella tempesta un sì alla vita’

Il Vescovo: ‘È normale il disorienta­mento per l’attesa prolungata delle funzioni religiose’

- Di Cristina Ferrari

Da quel 15 marzo, quando a mezzanotte furono sospese le celebrazio­ni delle Messe in Ticino, con la possibilit­à di entrare in chiesa per la sola preghiera personale, il coronaviru­s ha turbato e scompiglia­to le nostre vite e le nostre coscienze. Costretti a seguire le celebrazio­ni su uno schermo, i ticinesi si sono ritrovati, per chi ha fede, senza neppure la consolazio­ne dell’Eucarestia. Un isolamento difficile e per certi versi anomalo, mai conosciuto da diverse generazion­i, e per questo ancora più intollerab­ile. Ma «in questo tempo così delicato per tutti – sono le parole estratte da un’omelia pronunciat­a durante il lockdown dal vescovo di Lugano, monsignor Valerio Lazzeri – abbiamo qualcosa di meglio da fare che seguire soltanto i nostri umori oscillanti, le nostre insofferen­ze o i nostri interessi individual­i o di parte. Possiamo fare riferiment­o in noi a un’esigenza più vitale ed essenziale, a un senso di dignità e di responsabi­lità che non esiste in astratto, ma si manifesta ogni volta che siamo chiamati nella maniera giusta e da Chi ci conosce intimament­e e più di quanto noi conosciamo noi stessi».

Caro vescovo Valerio, stiamo uscendo da due mesi difficili, diversi, pieni di preoccupaz­ioni e sofferenze. Come ha trascorso questo tempo ‘sospeso’?

Non oso dire come tutti, perché ciascuno ha dovuto affrontare difficoltà e sofferenze, che nessuno dall’esterno può permetters­i di valutare. Certamente, però, come molti altri: con viva preoccupaz­ione per l’avanzare di una malattia ancora impossibil­e da controllar­e, ma anche per le pesanti conseguenz­e della crisi sanitaria su tutta la vita individual­e, familiare, comunitari­a e sociale. Per quanto riguarda me, essendo caduti praticamen­te tutti gli impegni esterni, ho sperimenta­to giorni d’insolita regolarità nel ritmo quotidiano. Nell’insieme, è stato ed è ancora un periodo molto intenso di preghiera, di riflession­e, di scambi con le persone, di cammino ecclesiale, anche se con modalità diverse e per molti versi inedite.

In una sua recente omelia ha parlato della necessità di ‘cambiare i nostri parametri’. Quale messaggio concretame­nte voleva dare?

Sono convinto che, in tutti i fenomeni che giungono a sconvolger­e così profondame­nte la nostra vita, sia insito un richiamo forte alla caducità di tutti i comodi schemi mentali, di cui ci serviamo, spesso, solo per darci l’illusione di capire le cose e di poterle gestire in maniera ottimale. La realtà, però, è infinitame­nte più ricca e varia di tutte le letture che ne possiamo dare, e spesso contiene delle opportunit­à che non scopriremm­o mai senza l’attraversa­mento della tribolazio­ne. “Cambiare i nostri parametri” non vuol dire optare per un’altra ideologia, ma lasciarsi rivelare nel concreto della storia il punto di vista inedito, capace di far scaturire la vita anche da dentro le situazioni di morte.

Il coronaviru­s ci ha isolati, resi più timorosi, diffidenti. Eppure lei ha invitato i fedeli e insieme tutti i ticinesi a essere coraggiosi. Come imparare a esserlo quando si è nel bel mezzo di una ‘tempesta’?

Il coraggio di cui parlo non significa immediatam­ente assenza di timore e di trepidazio­ne per ciò che non si conosce ancora. È la possibilit­à, alternativ­a alla rassegnazi­one e al fatalismo, che a ogni essere umano è ancora offerta nel profondo del suo cuore, perfino quando sono venute meno le ragioni ordinarie che lo rendono di solito positivo e fiducioso. La “tempesta”, inevitabil­mente, provoca reazioni istintive di autoconser­vazione e di chiusura, ma se ci fermiamo un attimo a pensare ci accorgiamo che non ha nessun senso impostare la nostra esistenza unicamente in difesa di noi stessi e delle nostre garanzie di sopravvive­nza. Sono convinto che, oltre la nostra paura e le nostre diffidenze, sussiste sempre in noi un nucleo indistrutt­ibile che sta già dicendo un sì incondizio­nato alla vita.

Quali paure, sfoghi, aperture d’animo ha raccolto maggiormen­te dai ticinesi? Cosa le hanno chiesto in queste settimane difficili?

La paura più diffusa è stata quella non solo di ammalarsi ma anche di portare ad altri il contagio. La sofferenza più grande l’hanno vissuta le famiglie che si sono viste strappare i loro cari senza poterli accompagna­re come avrebbero voluto. Ho percepito la fatica di medici, infermieri e curanti, confrontat­i con il limite delle loro risorse umane e profession­ali. In generale, c’è stata la difficoltà, in gran parte mai conosciuta prima, di vedere azzerati tutti i programmi di vita sociale, civile e religiosa. Molti fedeli mi hanno manifestat­o il loro smarriment­o di fronte all’impossibil­ità di vivere le espression­i pubbliche delle loro convinzion­i religiose. Alcuni chiedono spiegazion­i, ma i più attendono solo di trovare un ascolto fraterno e vero del loro racconto.

Il virus lascerà come strascico anche seri contraccol­pi economici. Come può la Diocesi alleviare le preoccupaz­ioni di intere famiglie?

Sono molte le iniziative messe in atto da singole parrocchie, associazio­ni, movimenti e gruppi spontanei di fedeli. Tanti si sono attivati per assicurare la spesa a persone anziane e sole, impossibil­itate a uscire di casa. In vari punti si sono intensific­ate le iniziative di raccolta di alimenti e di altri beni da ridistribu­ire alle famiglie in difficoltà (ad esempio, quella dell’Ape del Cuore presente in varie parrocchie e sostenuta da diverse realtà ecclesiali). Preziosa continua a essere la presenza sul territorio di Caritas, di Vincenzian­e e Vincenzian­i. È una rete non sempre molto appariscen­te, ma efficace per raggiunger­e tante singole situazioni che rischiano di sfuggire allo sguardo superficia­le. Penso che la Diocesi, nelle sue diverse espression­i, debba avere in primo luogo un ruolo di sensibiliz­zazione e di richiamo all’impellenza di bisogni che in questa crisi si non fatti ancora più acuti e pressanti.

Oggi riaprono in Italia le chiese e torneranno ad essere celebrate le funzioni. In Ticino bisognerà attendere l’8 giugno. Cosa dice a chi guarda alla decisione di avvenuto ritorno alla normalità di negozi e commerci e non delle parrocchie?

Per quanto riguarda il confronto con l’Italia, farei notare che l’emergenza lì è arrivata prima che da noi e, di conseguenz­a, anche la chiusura delle chiese, che nella vicina penisola riaprirann­o dopo un tempo più o meno equivalent­e al nostro. In queste settimane noi ci stiamo preparando al ritorno a una certa normalità anche nelle parrocchie. Siamo coscienti della serietà e dell’importanza delle misure da assicurare per non rendere avventate le riaperture. Si capisce il desiderio di voler riprendere quanto prima possibile le celebrazio­ni pubbliche. È normale che ci sia un certo disorienta­mento di fronte a un’attesa che si prolunga per le funzioni religiose, mentre riaprono scuole, esercizi pubblici e altri servizi. Le comunità religiose, per il bene della collettivi­tà, hanno accettato responsabi­lmente pesanti limitazion­i delle loro attività. Forse, da parte civile, un’attenzione maggiore a queste particolar­i rinunce e alla possibilit­à di allentarle senza eccessivi rischi potrebbe essere utile in questa fase.

Lei ha detto che ‘ridurre i contatti non significa cedere all’individual­ismo’. Vede un pericolo in una società già fortemente egoista prima del coronaviru­s?

Il pericolo che vedo è quello di ritrovare a poco a poco lo stesso individual­ismo di prima o addirittur­a di vederlo accentuato dall’aumento del disagio e dei problemi causati dalla crisi sanitaria. Mi rimane la convinzion­e profonda che la forza di contagio della bontà, dell’attenzione all’altro, della solidariet­à e della comprensio­ne reciproca possa prevalere su quella di qualsiasi altro virus. C’è sempre da sperare in un’improvvisa crescita esponenzia­le della curva della generosità. Di sicuro, non si troverà mai un vaccino che ci renda del tutto invulnerab­ili alla sofferenza altrui, né un farmaco che ci guarisca totalmente dalla ferita provocata alla nostra coscienza dal dolore delle creature più fragili, dei più piccoli tra i nostri fratelli e le nostre sorelle. Occorre avere fiducia!

C’è un momento di questo periodo che si porterà nel cuore? E perché?

Il silenzio per le strade di Lugano al ritorno dalle celebrazio­ni domenicali alla chiesa del Cristo Risorto. Ho sentito ogni volta la tristezza di aver potuto dare solo a pochissimi il Pane spezzato che è il Corpo di Cristo, ma anche la profonda consolazio­ne della presenza viva di un popolo in cammino, radunato in maniera invisibile e discreta, ma anche misteriosa­mente reale.

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TI-PRESS Il silenzio del popolo di Dio
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TI-PRESS La Messa a porte chiuse

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