‘Nella tempesta un sì alla vita’
Il Vescovo: ‘È normale il disorientamento per l’attesa prolungata delle funzioni religiose’
Da quel 15 marzo, quando a mezzanotte furono sospese le celebrazioni delle Messe in Ticino, con la possibilità di entrare in chiesa per la sola preghiera personale, il coronavirus ha turbato e scompigliato le nostre vite e le nostre coscienze. Costretti a seguire le celebrazioni su uno schermo, i ticinesi si sono ritrovati, per chi ha fede, senza neppure la consolazione dell’Eucarestia. Un isolamento difficile e per certi versi anomalo, mai conosciuto da diverse generazioni, e per questo ancora più intollerabile. Ma «in questo tempo così delicato per tutti – sono le parole estratte da un’omelia pronunciata durante il lockdown dal vescovo di Lugano, monsignor Valerio Lazzeri – abbiamo qualcosa di meglio da fare che seguire soltanto i nostri umori oscillanti, le nostre insofferenze o i nostri interessi individuali o di parte. Possiamo fare riferimento in noi a un’esigenza più vitale ed essenziale, a un senso di dignità e di responsabilità che non esiste in astratto, ma si manifesta ogni volta che siamo chiamati nella maniera giusta e da Chi ci conosce intimamente e più di quanto noi conosciamo noi stessi».
Caro vescovo Valerio, stiamo uscendo da due mesi difficili, diversi, pieni di preoccupazioni e sofferenze. Come ha trascorso questo tempo ‘sospeso’?
Non oso dire come tutti, perché ciascuno ha dovuto affrontare difficoltà e sofferenze, che nessuno dall’esterno può permettersi di valutare. Certamente, però, come molti altri: con viva preoccupazione per l’avanzare di una malattia ancora impossibile da controllare, ma anche per le pesanti conseguenze della crisi sanitaria su tutta la vita individuale, familiare, comunitaria e sociale. Per quanto riguarda me, essendo caduti praticamente tutti gli impegni esterni, ho sperimentato giorni d’insolita regolarità nel ritmo quotidiano. Nell’insieme, è stato ed è ancora un periodo molto intenso di preghiera, di riflessione, di scambi con le persone, di cammino ecclesiale, anche se con modalità diverse e per molti versi inedite.
In una sua recente omelia ha parlato della necessità di ‘cambiare i nostri parametri’. Quale messaggio concretamente voleva dare?
Sono convinto che, in tutti i fenomeni che giungono a sconvolgere così profondamente la nostra vita, sia insito un richiamo forte alla caducità di tutti i comodi schemi mentali, di cui ci serviamo, spesso, solo per darci l’illusione di capire le cose e di poterle gestire in maniera ottimale. La realtà, però, è infinitamente più ricca e varia di tutte le letture che ne possiamo dare, e spesso contiene delle opportunità che non scopriremmo mai senza l’attraversamento della tribolazione. “Cambiare i nostri parametri” non vuol dire optare per un’altra ideologia, ma lasciarsi rivelare nel concreto della storia il punto di vista inedito, capace di far scaturire la vita anche da dentro le situazioni di morte.
Il coronavirus ci ha isolati, resi più timorosi, diffidenti. Eppure lei ha invitato i fedeli e insieme tutti i ticinesi a essere coraggiosi. Come imparare a esserlo quando si è nel bel mezzo di una ‘tempesta’?
Il coraggio di cui parlo non significa immediatamente assenza di timore e di trepidazione per ciò che non si conosce ancora. È la possibilità, alternativa alla rassegnazione e al fatalismo, che a ogni essere umano è ancora offerta nel profondo del suo cuore, perfino quando sono venute meno le ragioni ordinarie che lo rendono di solito positivo e fiducioso. La “tempesta”, inevitabilmente, provoca reazioni istintive di autoconservazione e di chiusura, ma se ci fermiamo un attimo a pensare ci accorgiamo che non ha nessun senso impostare la nostra esistenza unicamente in difesa di noi stessi e delle nostre garanzie di sopravvivenza. Sono convinto che, oltre la nostra paura e le nostre diffidenze, sussiste sempre in noi un nucleo indistruttibile che sta già dicendo un sì incondizionato alla vita.
Quali paure, sfoghi, aperture d’animo ha raccolto maggiormente dai ticinesi? Cosa le hanno chiesto in queste settimane difficili?
La paura più diffusa è stata quella non solo di ammalarsi ma anche di portare ad altri il contagio. La sofferenza più grande l’hanno vissuta le famiglie che si sono viste strappare i loro cari senza poterli accompagnare come avrebbero voluto. Ho percepito la fatica di medici, infermieri e curanti, confrontati con il limite delle loro risorse umane e professionali. In generale, c’è stata la difficoltà, in gran parte mai conosciuta prima, di vedere azzerati tutti i programmi di vita sociale, civile e religiosa. Molti fedeli mi hanno manifestato il loro smarrimento di fronte all’impossibilità di vivere le espressioni pubbliche delle loro convinzioni religiose. Alcuni chiedono spiegazioni, ma i più attendono solo di trovare un ascolto fraterno e vero del loro racconto.
Il virus lascerà come strascico anche seri contraccolpi economici. Come può la Diocesi alleviare le preoccupazioni di intere famiglie?
Sono molte le iniziative messe in atto da singole parrocchie, associazioni, movimenti e gruppi spontanei di fedeli. Tanti si sono attivati per assicurare la spesa a persone anziane e sole, impossibilitate a uscire di casa. In vari punti si sono intensificate le iniziative di raccolta di alimenti e di altri beni da ridistribuire alle famiglie in difficoltà (ad esempio, quella dell’Ape del Cuore presente in varie parrocchie e sostenuta da diverse realtà ecclesiali). Preziosa continua a essere la presenza sul territorio di Caritas, di Vincenziane e Vincenziani. È una rete non sempre molto appariscente, ma efficace per raggiungere tante singole situazioni che rischiano di sfuggire allo sguardo superficiale. Penso che la Diocesi, nelle sue diverse espressioni, debba avere in primo luogo un ruolo di sensibilizzazione e di richiamo all’impellenza di bisogni che in questa crisi si non fatti ancora più acuti e pressanti.
Oggi riaprono in Italia le chiese e torneranno ad essere celebrate le funzioni. In Ticino bisognerà attendere l’8 giugno. Cosa dice a chi guarda alla decisione di avvenuto ritorno alla normalità di negozi e commerci e non delle parrocchie?
Per quanto riguarda il confronto con l’Italia, farei notare che l’emergenza lì è arrivata prima che da noi e, di conseguenza, anche la chiusura delle chiese, che nella vicina penisola riapriranno dopo un tempo più o meno equivalente al nostro. In queste settimane noi ci stiamo preparando al ritorno a una certa normalità anche nelle parrocchie. Siamo coscienti della serietà e dell’importanza delle misure da assicurare per non rendere avventate le riaperture. Si capisce il desiderio di voler riprendere quanto prima possibile le celebrazioni pubbliche. È normale che ci sia un certo disorientamento di fronte a un’attesa che si prolunga per le funzioni religiose, mentre riaprono scuole, esercizi pubblici e altri servizi. Le comunità religiose, per il bene della collettività, hanno accettato responsabilmente pesanti limitazioni delle loro attività. Forse, da parte civile, un’attenzione maggiore a queste particolari rinunce e alla possibilità di allentarle senza eccessivi rischi potrebbe essere utile in questa fase.
Lei ha detto che ‘ridurre i contatti non significa cedere all’individualismo’. Vede un pericolo in una società già fortemente egoista prima del coronavirus?
Il pericolo che vedo è quello di ritrovare a poco a poco lo stesso individualismo di prima o addirittura di vederlo accentuato dall’aumento del disagio e dei problemi causati dalla crisi sanitaria. Mi rimane la convinzione profonda che la forza di contagio della bontà, dell’attenzione all’altro, della solidarietà e della comprensione reciproca possa prevalere su quella di qualsiasi altro virus. C’è sempre da sperare in un’improvvisa crescita esponenziale della curva della generosità. Di sicuro, non si troverà mai un vaccino che ci renda del tutto invulnerabili alla sofferenza altrui, né un farmaco che ci guarisca totalmente dalla ferita provocata alla nostra coscienza dal dolore delle creature più fragili, dei più piccoli tra i nostri fratelli e le nostre sorelle. Occorre avere fiducia!
C’è un momento di questo periodo che si porterà nel cuore? E perché?
Il silenzio per le strade di Lugano al ritorno dalle celebrazioni domenicali alla chiesa del Cristo Risorto. Ho sentito ogni volta la tristezza di aver potuto dare solo a pochissimi il Pane spezzato che è il Corpo di Cristo, ma anche la profonda consolazione della presenza viva di un popolo in cammino, radunato in maniera invisibile e discreta, ma anche misteriosamente reale.