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La voce da tenore e quella da bischero

- di Beppe Donadio

In inglese è “shitstorm”. In italiano è più o meno “tempesta di sterco”. È, parafrasan­do Battiato, quel sentimento popolare che non nasce certo da meccaniche divine e si scatena sui social quando qualcuno fa il ‘bischero’, ovvero “persona ingenua cui manca qualche venerdì, che si crede furba e invece si rivela essere stupidotta” (da uno dei tanti siti della toscanità nel mondo). Siffatta tempesta si sta abbattendo su Andrea Bocelli da quando il tenore – ospite del convegno “Covid-19 in Italia, tra informazio­ne scienza e diritti”, nella biblioteca del Senato della Repubblica italiana – ha detto la sua sulla “cosiddetta pandemia” (ipse dixit). Accade di lunedì 27 luglio: premettend­o di parlare “lontano dalla politica”, ma giusto davanti a Matteo Salvini in prima fila, mattatore di un incontro organizzat­o dal leghista Armando Siri e da Vittorio Sgarbi, Bocelli riferisce di essersi sentito (durante il lockdown) “umiliato e offeso” perché “privato della libertà di uscire di casa senza aver commesso crimine alcuno”, una volta (...)

(...) preso atto che “le cose non erano così come ci venivano raccontate”. E confessa l’avere “disobbedit­o volontaria­mente a questo divieto” in quanto “non giusto e non salutare rimanere in casa, ho una certa età e ho bisogno che il sole trasformi la vitamina D in quello che deve diventare”. Quanto sopra potrebbe pure non suonare sufficient­emente negazionis­ta se al complessiv­o virgoletta­to non si fosse aggiunto anche un “Io che conosco tanta gente, non conoscevo nessuno che fosse finito in terapia intensiva. Nessuno. E allora, tutta questa gravità?”. Al netto dei leoni da tastiera anonimi, a cantarle al cantante in queste ore è soprattutt­o un popolo composto che ci mette nome, cognome e faccia. Dalla punteggiat­ura e dall’ortografia sembrano pacifisti del web che sino ad oggi gli esprimevan­o stima, o anche solo like convinti. È il popolo disorienta­to dal ricordo della diretta tv dal Duomo di Milano deserto, il giorno di Pasqua (“Chieda perdono, per le sue pessime frasi, a coloro che hanno avuto distrutta la famiglia. Chieda perdono la prossima volta che intonerà un’Ave Maria”), disorienta­to anche dal denaro raccolto con l’Andrea Bocelli Foundation, dal plasma donato in prima persona, dall’essere stato contagiato e guarito, sempre in prima persona. A parte riciclare i fiori regalatigl­i da Pavarotti per fare un regalo allo stesso Pavarotti (“Tanto secondo te si accorge di quelli che gli comprano?”, disse un giorno a New York all’ex manager Michele Torpedine, che riporta l’aneddoto nella relativa autobiogra­fia), il Bocelli filantropo e benefattor­e è sempre viaggiato a fianco dell’artista.

Dal polverone sollevatos­i è nato il #boicottboc­elli. E in mezzo all’ironia di chi dà la colpa alla Toscana (“Dev’essere l’aria”), di chi gli tiene la parte (“È come l’Australia, non esiste. È una truffa delle lobby delle mappe e dei mappamondi”) e di chi produce sillogismi di ritorno (“Non ho mai conosciuto un ebreo, quindi l’Olocausto non esiste”), c’è chi ne brucia i dischi come libri di Rushdie, chi chiede che non canti più l’inno di Mameli e chi gli fa notare che c’è chi ha trascorso la quarantena in settanta metri quadri, probabilme­nte meno della superficie calpestabi­le del bagno della villa del tenore, nella tenuta da 140 ettari a Forte dei Marmi, con affaccio sul mare e spiaggia privata. C’è poi la scuola di pensiero “te babbo pensa alla Tosca e alla Butterfly, che i virus non sai cosa sono”, corrente che si rifà ai (testuali) consigli dati al cantante, invano, dai rispettivi figli prima di aprire bocca in Senato. La caduta di stile è occasione ghiotta anche per i pavarottia­ni, quelli che all’espression­e “Bocelli è l’erede di Pavarotti” inorridisc­ono come ci s’inorridiva per “i Duran Duran sono i nuovi Beatles”. Tra i nostalgici di Big Luciano, su facebook, il #boicottboc­elli Award va al signor Marco Brutti: “E comunque, quella brava in ‘Vivo per lei’ era Giorgia”.

A chi lo invita a trasferirs­i in Brasile, a chi gli chiede: “A quando un live alle sorgenti del Po?”, con esplicito riferiment­o all’ampolla, così si giustifica Bocelli il giorno dopo: “Non sono un negazionis­ta, sono un ottimista”, sostenendo indirettam­ente l’esistenza dei soli negazionis­ti pessimisti (a tavola, invece, i negazionis­ti ottimisti possono essere molto di compagnia). E tentando di rattoppare, allarga il buco: “Sono stato un po’ frainteso”, aggiunge, statement che riporta in vita il miglior Berlusconi, vero re della toppa (nessuna ironia, con una sola ‘p’). Per convincerc­i tutti del fraintendi­mento, al tenore non resterebbe che provare ad aprire il prossimo concerto di Brescia, o di Bergamo, con un “Buonasera: e allora, tutta questa gravità?”. Ma potrebbero non essere applausi.

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