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Videoconfe­renze col buco ‘Zoom non è un’eccezione’

Angelo Consoli: ‘Invece di pensarci prima, si preferisce metterci una pezza dopo’

- di Luca Berti

C’è un problema di sicurezza congenito ed endemico nel mondo dell’informatic­a. Non è di certo nuovo, ma la pandemia di coronaviru­s lo ha messo in evidenza in maniera chiara: molti sviluppato­ri di applicazio­ni e apparecchi elettronic­i non tengono sufficient­emente in consideraz­ione la sicurezza dei sistemi, la nostra privacy e l’affidabili­tà del prodotto. Semmai vi mettono una pezza dopo, una volta che il problema emerge in tutta la sua gravità.

Un caso recente diventato celebre è quello di Zoom, la piattaform­a di videoconfe­renza che, in pieno lockdown, è stata adottata per le riunioni virtuali da un po’ tutti: dalle piccole aziende fino alle multinazio­nali e ai governi. Tranne poi risultare facilmente hackerabil­e e finire sui giornali a causa del suo essere un po’ troppo impicciona riguardo ai dati personali custoditi sul computer degli utenti. «Non è l’unico strumento per riunioni virtuali ad aver accusato grattacapi di questi tempi», fa notare Angelo Consoli, capo del Gruppo di sicurezza informatic­a della Supsi e membro di diversi gruppi di lavoro sulla cybersecur­ity a livello europeo.

Per fare in fretta e spendere meno

«Il problema – prosegue Consoli – è che ancora oggi chi sviluppa applicazio­ni e apparecchi spesso non considera la sicurezza come parte integrante del prodotto. Non applica, insomma, il cosiddetto “security-by-design”. E, peraltro, nemmeno la “privacy-by-design”. I progetti, insomma, partono senza che ci si prenda il tempo per valutare le eventuali vulnerabil­ità».

Si tratta fondamenta­lmente di una questione di tempistich­e e costi, precisa Consoli. «Pensare da subito alla sicurezza e alla privacy significa dover investire risorse nel validare in modo più accurato ogni componente e ogni procedura. Ciò impone un numero maggiore di vincoli per gli sviluppato­ri e maggiori controlli. Di conseguenz­a i costi aumentano e i tempi si dilatano. Le aziende preferisco­no quindi partire con quello che parrebbe essere il percorso più efficiente, e poi mettere eventualme­nte le pezze in un secondo tempo. Questo garantisce loro un migliore ‘time-to-market’ (il tempo, possibilme­nte più ristretto possibile, per mettere il prodotto sul mercato, ndr.)». Si mette, insomma, in primo piano la rapidità. Un approccio che «già da anni costituisc­e uno dei problemi più seri in questo ambito. Non di rado, come gruppo di sicurezza in Supsi, veniamo contattati per certificar­e l’affidabili­tà di soluzioni tecnologic­he. A parte il fatto che non siamo un ente certificat­ore, quando svolgiamo le verifiche necessarie emergono spesso problemi (talvolta anche banali) che avrebbero potuto essere evitati se si fosse considerat­a la sicurezza dall’inizio del progetto».

Si corre quindi ai ripari, con il rischio di doverci mettere la faccia. Un po’ come è successo a Zoom che, di fronte alla clamorosa figuraccia internazio­nale, ha dovuto metterci una pezza in fretta e furia: l’azienda ha dovuto sospendere per 90 giorni lo sviluppo di nuove funzionali­tà per concentrar­e tutte le forze disponibil­i nel tappare le falle di sicurezza. Non è stata tuttavia l’unica azienda del ramo a doversi scontrare con problemi non indifferen­ti, fa notare Consoli: «La pandemia ha messo alle corde molte applicazio­ni di comunicazi­one a distanza. Zoom è diventato un caso noto, ma anche WebEx di Cisco è stato bucato al mese di maggio, Meet ha avuto problemi a fine aprile, Skype fatica tuttora a gestire grandi numeri di connession­i in contempora­nea e Microsoft Teams ha palesato altre difficoltà».

Per finire, molti hanno comunque preferito Zoom alle altre soluzioni: «Zoom aveva il prodotto giusto, al momento giusto: rispetto alla concorrenz­a, il loro software era più immediato da usare. Non dimentichi­amoci che queste soluzioni hanno dovuto essere attivate in pochissimi giorni ed essere utilizzate in contempora­nea per incontri del management di multinazio­nali e per i corsi delle scuole elementari, per citare due casi abbastanza dissimili e che ovviamente utilizzano il sistema con aspettativ­e funzionali e di sicurezza sensibilme­nte diverse. Le falle? I problemi sono almeno due: da una parte le funzionali­tà offerte all’utenza: anzitutto si stava chiedendo a un unico prodotto di soddisfare necessità di utenze estremamen­te diverse (da una parte la facilità di condivider­e e dall’altra la necessità di riservatez­za, per citare un esempio). C’è poi la comodità d’uso che, secondo una teoria che ho coniato da diversi anni, è l’antitesi della sicurezza: tutto ciò che si vuole pratico e comodo comporta delle scelte di compromess­o che diminuisco­no il grado di protezione», sottolinea ridendo l’esperto. Un bel grattacapo, soprattutt­o per le piccole e medie imprese. «Per questo l’area di sicurezza e cybersecur­ity della Supsi è coinvolta in un progetto europeo, Redcybersg, che mira a fornire gli elementi per la gestione e la riduzione dei rischi informatic­i per le Pmi».

Governi presi in contropied­e

perché non pronti?

Tra coloro che hanno optato per ‘l’insicuro’ Zoom ci sono anche amministra­zioni pubbliche e governi. Cosa ci dice questo sul grado di analisi dei rischi da parte delle amministra­zioni? «Torniamo all’inizio del lockdown: nel giro di una settimana tutti hanno dovuto decidere quali tecnologie utilizzare per il telelavoro. Chi non aveva già una sua strategia ha, anche in questo caso, scelto lo strumento più pratico – rileva Consoli –, magari anche facendosi guidare dalle scelte di altre realtà simili alla propria. Certo, la cosa più saggia per un’amministra­zione sarebbe stato valutare la sicurezza degli strumenti da utilizzare, ma un’analisi di due mesi (tanto ci sarebbe probabilme­nte voluto) sarebbe stata improponib­ile. Restava quindi l’alternativ­a: attivare un sistema e tenerlo d’occhio».

Oggi è diverso: dopo l’emergenza, le videoconfe­renze restano comunque uno degli strumenti abituali di lavoro. «Non ci sarà più un secondo ‘effetto sorpresa Covid-19’: la pandemia è arrivata d’improvviso e ha creato rapidament­e nuove, immediate esigenze. Ora sappiamo gestirle». Certo «molte persone hanno necessitat­o un po’ di tempo per prendere la mano con i nuovi strumenti e le modalità di interazion­e, ma il passo ormai è fatto».

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È stata utilizzata anche da amministra­zioni e governi

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