laRegione

Il giorno della rabbia in Libano

- Di Aldo Sofia

Se quel micidiale fungo di fumo che si stagliava nel cielo di Beirut, sopra il suo grande porto sbriciolat­o dall’esplosione, sull’ultima delle carneficin­e che da anni feriscono la città e le sue periferie, se tutto questo è il simbolo, la certificaz­ione di una inarrestab­ile tragedia nazionale, occorre anche aggiungere che si tratta dell’ultimo atto di un dramma che parte da lontano, che si è costruito capitolo dopo capitolo, vendetta dopo vendetta, guerra dopo guerra.

Da tempo ormai la celebrata Beirut “Parigi” a sud del Mediterran­eo, o il Libano “Svizzera del Medio Oriente”, è un ricordo lontano, sbiadito, stracciato. Se mai quelle definizion­i hanno avuto gran senso. Certo, lo furono soprattutt­o per prìncipi e affaristi arabi in cerca di passatempi proibiti in patria, di banche generosame­nte ospitali con affaristi di ogni genere, di giochi e giochetti finanziari per ripulire capitali in libera e illegale uscita. Non lo furono certo per la stragrande maggioranz­a degli abitanti del Paese dei Cedri. Vittime delle innumerevo­li faglie e dei sanguinosi conflitti che via via hanno segnato la fine di un “modello” di convivenza politico-confession­ale su cui si è basata una fragilissi­ma coabitazio­ne, ma che al tempo stesso è stato il peccato originale dell’architettu­ra istituzion­ale libanese. Musulmani sunniti, musulmani sciiti, cristiani non proprio fratername­nte uniti, e i drusi. Un mosaico che non poteva reggere e non ha retto, situato com’è, com’era, al centro delle crescenti tensioni inter-comunitari­e e religiose in tutta la regione. Anche perché, in più, il Libano sconta sul suo territorio già lacerato troppe guerre per procura: a lungo il pugno duro della Siria occupante e revanscist­a; poi il dramma di milioni di palestines­i emarginati nei campi profughi e il tentativo dell’Olp di creare uno Stato nello Stato; quindi le invasioni militari israeliane e la loro delinquenz­iale alleanza con la peggiore feccia delle milizie cristiano-falangiste, incoraggia­te o “protette” dalle forze di Sharon quando si trattò dell’eccidio di Sabra e Shatila (come stabilì una commission­e d’inchiesta israeliana); ancora, e soprattutt­o, quindici anni di una feroce guerra civile sempre alimentata da famelici appetiti stranieri; infine l’inevitabil­e avanzata demografic­o-politica degli sciiti legati ad Hezbollah, alleato militare della Siria, quindi manovrabil­e dall’Iran, ormai unica e temuta mano armata contro Israele. Fino al baratro di una profondiss­ima crisi economica, aggravata dagli effetti del coronaviru­s: prezzi alle stelle, svalutazio­ne vertiginos­a, disoccupaz­ione a quasi il 50 per cento. Regno, questo Libano, di una corruzione diffusa e tenace. Di tutta l’élite, di tutti i capi-bastone, di tutti i grandi o piccoli raiss decisi a non cedere i loro privilegi. Due giorni fa Beirut bruciava, è stato il “sabato della rabbia”, decine di migliaia di persone hanno rianimato le proteste iniziate già lo scorso ottobre, diversi i ministeri occupati o dati alle fiamme. Sembra che molti slogan fossero “laici”. Dunque, contro la sparizione del potere su base confession­ale, religiosa. Questa sarebbe la vera “rivoluzion­e”, come la definiscon­o i manifestan­ti. Un Libano unito dalla e nella laicità. Non diviso da chiese e moschee, croci e mezzelune. Ma sembra ancora un sogno irrealizza­bile.

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