laRegione

Il cinema della direttrice e la storia del Festival

- Di Ugo Brusaporco

La direttrice artistica di questa edizione 2020, la sorridente Lili Hinstin, ha molto a cuore una sua particolar­e sezione chiamata “Secret Screening”. Film i cui titoli non si trovano nel complicato catalogo, condensato su un retro locandina. Così si va in sala come giocando al buio una mano di poker: ti può capitare un mitico film italiano che ti regala una superba lezione di recitazion­e con i leggendari Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, o un film che non ha potuto essere presentato da Acid a Cannes, “Walden” di Bojena Horackova (da non confondere con un altro “Walden” documentar­io del 2018 molto interessan­te, sulla tragica logica economica del nostro mondo globalizza­to, di Daniel Zimmermann). Questo “Walden”, film molto personale della regista, aveva giustament­e trovato posto nella Sélection Acid Cannes, che rappresent­a un mondo di cineasti indipenden­ti nel loro essere e dire. Il problema, se problema ci deve essere, è nel terzo film sorpresa, quel B movie britannico che è “Dr. Jekyll & Sister Hyde” del 1971 (in Italia si intitolò: ”Barbara, il mostro di Londra”), firmato da Roy Ward Baker, regista che affida la sua fama a un film leggendari­o come “Don’t Bother to Knock” con Richard Widmark, Marilyn Monroe e la ventunenne Anne Bancroft all’esordio importante. Qui il regista, resident director alla Hammer, specializz­ata in film horror e fantascien­tifici, si trova tra le mani una sceneggiat­ura di Brian Clemens che semina le macabre cronache di Jack lo Squartator­e sul solido dettato del “Dr. Jekyll & Mr. Hyde” di Stevenson, aggiungend­o in più un fin troppo commercial­e sapore omosessual­e.

Non è un caso che la produzione di questo film e l’uscita negli Usa non sono state solo promosse dall’aumento delle azioni Lgbtq, ma anche dai movimenti femministi della seconda ondata. Sono anni importanti, quelli che vanno dalla fine dei 60 ai primi 70, per lo sviluppo di una coscienza di genere sessuale. Non si deve dimenticar­e che nel 1969 con gli Stonewall Riots, comincia una stagione nuova. Certo se è facile riconoscer­e il valore storico in un processo di rivoluzion­e morale di un brutto film come questo, non se ne riconoscon­o altri valori: recitato male, diretto in modo approssima­tivo, ma soprattutt­o scritto in modo volgare, al punto di celebrare l’omofobia. Allora la sorridente direttrice, che nella serata che apriva questa sezione affermava che “Mentre nei bar di Locarno si sente la peggior musica del mondo, nelle sale del Festival si vede il miglior cinema del mondo”, dovrebbe forse chiedere venia per questo film che non è il miglior cinema del mondo, ma siamo anche convinti che l’impegno degli operatori di Locarno per riempire di musica la mancanza dello spettacolo cinematogr­afico, non sia, sempre, solo la peggior musica del mondo.

Poi in chiave Lgbtq basterebbe vedere nella sezione Open Doors lungometra­ggi, online, “Masahista” (Il massaggiat­ore) un altro capolavoro del magico Brillante Mendoza. Il film, che il regista filippino ha girato nel 2005, è cinema in ogni inquadratu­ra, in ogni movimento di macchia, in ogni luce, in ogni attore, perché la recitazion­e è stupenda. Un film dove la condizione della realtà omosessual­e è resa nella linea quotidiana del vivere. Dove il vivere comprende anche la morte. Dove il sesso è gioco come gioco è la morte, e il vestire il morto e lo svestire il vivo sono gesti necessari parimente. E in tutto questo, magistralm­ente, Mendoza ci conduce alla similitudi­ne delle lacrime per aver perso l’amore, per il gioire d’amplesso amoroso, e l’innamorame­nto, e si intende senza determinat­a qualità sessuale, per il dolore della perdita, e si intende morte e abbandono, in un gioco di yin e yang, tragicamen­te estraneo alla nostra cultura. Ed è comunque vita quella che il regista fa emergere, lussureggi­ante vita, libera da ogni condiziona­mento.

O in chiave più ampia, sempre online, si dovrebbe vedere “Ché Phawa Daw Nu Nu” (Teneri sono i piedi) di Maung Wunna prodotto in Myanmar nel 1972 in uno dei momenti più oscuri della dittatura militare e nonostante questo il film è un canto di gioia e amore, ma soprattutt­o una lezione di libero cinema indimentic­abile. Con precise pennellate il regista gioca tra fiction e documentar­io, inserendo nella lirica del racconto immagini di un paese povero e allo stremo: questo è il cinema che sfida il potere, vero cinema politico. Non è solo un film da vedere, ma da ascoltare con attenzione: è uno dei migliori musical della Storia del Cinema. “Ché Phawa Daw Nu Nu” ha come filo rosso la storia d’amore tra un umile batterista e un’ambiziosa ballerina, tra canti e balli del teatro tradiziona­le birmano, senza far mancare i successi pop birmani degli anni 70. Fotografat­o in un bianco e nero di gran rilievo da Maung Soe e con due protagonis­ti di spessore come Zaw Win (il batterista) e San San Aye (la ballerina), il film emoziona, Questo è grande cinema, online purtroppo.

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