Una piccola storia femminista
Un ritratto cinematografico, una storia ‘semplice e femminista’
Intervista alla regista Andrea Štaka, autrice di ‘Mare’, ritratto di una donna coraggiosa e fragile che dopo la Berlinale e il lockdown arriva nelle sale ticinesi.
La prima domanda è ormai sempre la stessa: che cosa ha significato per il suo lavoro la chiusura del lockdown? La regista svizzera Andrea Štaka non fa eccezione, anche se la risposta la abbiamo vista nel cortometraggio ‘My Mom, my Son and Me’, parte del progetto ‘Collection Lockdown By Swiss Filmmakers’ – disponibile online (su e proiettato in chiusura di questa anomala edizione del Festival di Locarno. Con i cinema chiusi tre giorni dopo l’arrivo del suo film ‘Mare’, e alcune pellicole super 16mm rimaste, Štaka ha raccontato, confinata in casa, come la pandemia ha cambiato il rapporto tra generazioni. Siamo lontani dai grandi spazi di ‘Mare’, ambientato nella “terra di nessuno” che circonda l’aeroporto di Dubrovnik, ma il tema di fondo è forse lo stesso: la vita che cambia, in questo caso di Mare (interpretata dall’intensa Marija Škaricic), madre di tre figli che ama la sua famiglia ma allo stesso tempo desidera più indipendenza e libertà – che sembra trovare nel giovane Piotr, operaio polacco appena trasferitosi.
La prima internazionale è stata alla Berlinale, nella sezione Panorama, con «le sale piene ma anche un po’ di timore per il coronavirus» ricorda la regista, a Lugano per l’arrivo – finalmente – del suo film in Ticino. «Quando c’è stato il lockdown è stato come un incubo: alcuni colleghi mi dicevano che tutto sommato ero fortunata, perché avevo avuto il mio film alla Berlinale… ma mi sono resa conto di quanto avessi bisogno del pubblico, realizzare il film e non incontrare il pubblico è come essere amputati».
Una dimensione che con lo streaming si perde.
È una cosa che abbiamo provato: con le sale chiuse, ‘Mare’ è andato in streaming, sulle piattaforme di video-on-demand. Così le persone che lo desideravano potevano vedere il film… ma io non vedevo le reazioni. Anche i festival online: partecipi a dei panel, registri dei videomessaggi di presentazione, ma è tutto adimensionale, parlo con il mio computer e non c’è dialogo.
Lo streaming è però sempre più popolare.
Io adoro andare al cinema, non capisco come si possa rinunciare a quell’esperienza per guardare un film sullo schermo di un computer. Ma è una realtà: sempre più gente preferisce guardare i film a casa e, per noi cineasti, è una sfida. Da affrontare guardando la realtà.
‘Mare’, girato in pellicola super 16mm come il suo primo film, ‘Das Fräulein’, Pardo d’oro a Locarno nel 2006.
‘Cure’, del 2014, era invece girato in digitale. Trovo il super 16 più “sensuale”, hai una fisicità diversa: hai la materia, è la luce che entra nella pellicola e lascia traccia, hai la grana che dà al film una sensazione diversa. Il paesaggio, che a me ricorda certi dipinti di Van Gogh, e il sole: non riesci a girare bene in digitale, con il sole.
E poi si lavora in modo diverso: gli attori e la troupe sono più concentrati – c’è anche un po’ di paura, perché hai girato e poi il materiale deve andare in un laboratorio di sviluppo e finché non torna, giorni dopo, rimani in attesa. È una tensione che credo abbia aiutato anche dal punto di vista creativo. ‘Mare’ è un ritratto – non c’è una storia, o meglio c’è ma è veramente poca cosa, perché il film è il ritratto di una donna in una fase particolare della sua vita. E per un ritratto ci vuole la grana della pellicola.
Ha detto che il film è un ritratto. E per il ruolo della protagonista ha voluto Marija Škaricic, già nei film precedenti.
Sì, potremmo dire che è una sorta di trilogia. Ho scritto ‘Mare’ per Marija Škaricic che è una grande attrice, perfetta per questo personaggio che ho subito trovato molto intrigante, nel suo essere al contempo coraggiosa e fragile, dura e dolce, madre e amante.
Ma se c’è continuità per gli interpreti, credo che i film siano molto diversi per contenuti: ‘Das Fräulein’ è un film sulla solitudine; con ‘Cure’ ho voluto fare qualcosa di più duro. ‘Mare’ invece è, almeno spero, un film autentico, all’apparenza semplice, quasi un documentario.
Su una donna e le sue scelte.
Non volevo fare un film sulla scelta tra il marito e l’amante: è un film su una fase particolare della vita, quando i figli crescono, quando ti rendi conto di come è cambiato il rapporto con il partner. Mare ama la sua famiglia, ama suo marito e i suoi figli, ma al contempo vuole anche altro. E la storia non è lei che sceglie di restare con il marito o che va in Australia con Piotr, perché anche se ti separi rimani sempre legata alla famiglia, ai figli.
Per questo alla fine non cambia quasi nulla.
No, non è esatto che non cambia quasi nulla. Accade una cosa piccola, semplice, ma molto importante. Mare ritorna a lavorare, il che significa ritagliarsi uno spazio di indipendenza, anche economica. Il marito non le proibiva di lavorare, ma rispondeva “sì, ma aspetta un attimo, aspetta che i figli siano cresciuti ancora un po’”. È una piccola cosa, ma è molto importante e penso renda il film molto femminista.
La scelta non è tra il marito e l’amante, ma per l’indipendenza.
Non è una questione di amore, anche perché alla fine il problema è con il figlio maggiore. È la ricerca, l’inquietudine di Mare. Alla fine c’è la decisione di riprendere in mano la propria vita.
Mentre giravamo, gli uomini non capivano: Goran Navojec, il marito, mi ha detto che non era possibile, che se fosse vero lui avrebbe ucciso l’amante, non sarebbe rimasto tranquillo con lui. Gli ho risposto: “Lo uccidi e poi? È più importante quello che capita a tuo figlio: il resto fa male ma non è la fine del mondo”.