Carlo Basilico e la Polus di Balerna
Tra problema identitario e difesa spirituale, una pagina dimenticata di pittura civile
Quando nel 1942, con sorprendente lungimiranza, Hans Staub, presidente del Consiglio di amministrazione della Polus, diede avvio ai lavori di ristrutturazione della fabbrica di tabacchi per creare pure un locale-mensa per il personale della ditta che contava allora più di duecento operai, quasi tutte donne, è assai probabile che abbia studiato con il pittore Carlo Basilico (1895-1966) le decorazioni più convenienti per quello spazio. Si trattava di farne un locale accogliente con interventi pittorici che, oltre che belli per l’occhio, fossero anche stimolanti per la mente.
Nacque così, tra il 1942 e il 1945, il ciclo di pitture che ancora oggi si può ammirare nell’ex refettorio della ditta a Balerna, consistente sostanzialmente in due nuclei di dipinti: 12 ampie pitture murali monocrome, tra una finestra e l’altra, raffiguranti scorci del Mendrisiotto e due grandi dipinti narrativi, dai colori vivi, posti su una delle pareti corte. Stando alla lettura che se ne è fatta finora, vi si illustravano i luoghi di provenienza delle sigaraie e due momenti della lavorazione del tabacco: quando lo si raccoglie e lavora in masseria e, poi, all’interno della fabbrica. In realtà, sulla parete corta opposta, di fronte a quei due dipinti, stessi colori e stesso formato, ce n’è anche un terzo che nulla ha a che vedere con la lavorazione del tabacco e che sembra confluito lì per caso, ragion per cui è rimasto completamente ignorato: si tratta de ‘La festa del I di agosto’, celebrazione del Natale della Patria.
La presenza di quel dipinto anomalo, unitamente a tutta una serie di indizi disseminati nelle pitture murali, ha permesso oggi un secondo livello di lettura che non annulla il primo ma ne amplifica gli orizzonti sia spaziali che temporali spingendone i significati a livelli assai più ampi e articolati. Li potremmo riassumere così: tema dell’intero ciclo dipinto da Basilico è l’identità di un popolo in trasformazione colta in un momento di difficile trapasso storico in cui talune problematiche che da decenni coinvolgevano intellettuali, politici e artisti della Svizzera Italiana (ma non solo) erano arrivate a un punto di alta criticità. Anzitutto il “problema identitario” di un cantone svizzero-italiano chiuso tra due frontiere che col tempo si erano fatte sempre più problematiche: a Sud, con “la grande madre Italia” come la chiamava Francesco Chiesa, a causa del progressivo aggravarsi della situazione politica italiana e del crescente isolamento della Svizzera sul piano internazionale; a Nord, per via della percezione sempre più diffusa e mal sopportata di una “tedeschizzazione del Ticino”, a discapito dell’identità culturale del Cantone. Si trattava insomma di veder riconosciuta e sostenuta l’italianità del Ticino così da riuscire a conciliare italianità ed elveticità.
Vi si sovrapponeva l’altra problematica riguardante l’intera nazione e concernente la “difesa spirituale” del Paese che, in anni di guerra, era diventata anche “difesa militare” del suolo patrio, mediante la mobilitazione e l’invenzione del “ridotto”. Già nel 1921, parlando alla Camera dei Deputati, Benito Mussolini aveva rivendicato il San Gottardo come “confine naturale” dell’Italia: affermazione che, per quieto vivere, lo Stato federale lasciava correre in un silenzio connivente. Anche per queste ragioni la Confederazione Svizzera, da cui il Cantone si attendeva aiuto e sostegno, era percepita come un’entità lontana. Fu così che a partire dal 1924 il Governo cantonale avviò la risentita politica delle “rivendicazioni ticinesi”, anche economiche, a difesa dell’autonomia e dell’italianità del Cantone.
La recente lettura del ciclo dimostra come le opere di Carlo Basilico alla Polus si inseriscano nel vivo di questo ampio dibattito. Da una parte affermando l’identità storica e culturale del Cantone Ticino calata dentro un paesaggio subalpino di cui, con mano sapiente, Basilico connota le radici italiche e lombarde nel modo di vivere, di vestire, di costruire chiese e masserie (cultura materiale e spirituale); dove però già si colgono i segni di una incipiente modernizzazione che smuove e dinamizza quell’antico passato lasciando intuire nuove prospettive di crescita sociale. Dall’altra con i tre grandi dipinti che ribadiscono quel concetto di un Ticino in trasformazione grazie alle nuove coltivazioni, all’industria manifatturiera, ai trasporti internazionali, fondamentali per un Ticino che voglia aprirsi verso un futuro proiettato oltre le tradizionali e scarse attività primarie; ma di cui sottolinea anche, con fermezza, la fedeltà e l’identificazione con i valori incarnati dalla bandiera svizzera. Tutto questo da posizionare nel contesto di un momento molto drammatico della storia europea e nel vivo di una guerra mondiale che non si sapeva quando e come sarebbe finita, con la Svizzera contornata da Stati dittatoriali dalle mire espansionistiche, in un Ticino – guardato con sospetto da non pochi svizzeri – dove qua e là serpeggiavano aneliti di irredentismo. Da anni la frontiera svizzera era diventata un punto molto critico, luogo anche di scontri armati, tanto che nella stessa Polus era stato posizionato un presidio militare che non di rado ospitava alti ufficiali. Basterebbe pensare a una loro visita al ciclo di dipinti fatti da Basilico per capire quale messaggio essi intendevano comunicare non solo alle operaie presenti in fabbrica, ma anche alle alte gerarchie rappresentanti la Confederazione.