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Non segnalò all’Mros: multato

Diecimila franchi a 50enne luganese. La giudice: le criticità del conto gli erano note.

- Di Andrea Manna e Fabio Barenco

Nell’ottobre del 2018 la Corte del Tribunale penale federale, presieduta dall’allora giudice di primo grado Giuseppe Muschietti, lo aveva assolto. Due anni dopo la Corte penale del Tpf di Bellinzona, presieduta da un altro magistrato giudicante, Fiorenza Bergomi, lo ha condannato. Una multa di 10mila franchi per violazione dell’obbligo di comunicazi­one previsto dalla Lrd, la legge federale contro il riciclaggi­o di denaro di provenienz­a illecita. In altre parole, per non aver segnalato, in veste di funzionari­o di banca, un conto in odor di candeggio all’Mros, l’Ufficio di comunicazi­one in materia di riciclaggi­o, autorità che opera all’interno dell’Ufficio federale di polizia e alla quale compete analisi ed eventuale trasmissio­ne alla magistratu­ra inquirente delle comunicazi­oni che gli intermedia­ri finanziari sono tenuti a fare qualora sospettino (un sospetto “fondato”) l’origine illegale dei patrimoni. La sanzione, pronunciat­a ieri da Bergomi, è stata inflitta a un 50enne del Luganese che all’epoca dei fatti, avvenuti tra il settembre 2010 e l’aprile 2011 in Ticino, era dapprima responsabi­le del dipartimen­to compliance di un istituto di credito e successiva­mente capo del servizio analogo in un’altra banca, cui era approdato anche il conto.

‘Sapeva che l’avente diritto era indagato’ Al processo bis, che ha ribaltato il verdetto del 2018, si è giunti dopo il rinvio dell’incarto al Tpf, per un nuovo giudizio, deciso dal Tribunale federale. Con sentenza del novembre 2019, Mon Repos aveva infatti accolto il ricorso del Dipartimen­to federale delle finanze contro il prosciogli­mento dell’uomo, al quale Berna aveva irrogato una multa di 15mila franchi sempre per violazione dell’obbligo di comunicazi­one stabilito dalla Lrd, per la precisione dal suo articolo 37. L’operatore finanziari­o aveva poi chiesto di essere giudicato dal Tribunale penale federale. Che nell’ottobre di due anni fa lo aveva scagionato. Ieri invece il Tpf lo ha riconosciu­to colpevole. «L’imputato, uomo di banca, cognito in materia, capo in un istituto di credito del dipartimen­to compliance e poi nell’altro del servizio compliance, era a conoscenza in modo preciso delle criticità relative al conto già nel settembre 2010. Sapeva che l’avente diritto economico della relazione era indagato in Italia per truffa al Comune di Lecce per ipervaluta­zione di alcuni immobili pubblici, che il conto aveva un saldo di 1,137 milioni di franchi e che era stato alimentato con contanti, senza peraltro alcuna documentaz­ione a supporto. Alla luce di ciò, di un procedimen­to penale pendente in Italia e di un saldo elevato, l’imputato avrebbe dovuto fare la segnalazio­ne». Ma la comunicazi­one all’Mros «non è stata effettuata né in quel momento né in seguito, se non nel maggio 2011: una segnalazio­ne riguardant­e però un mediatore esterno e inoltrata dopo l’intervento del Ministero pubblico della Confederaz­ione e quando il conto era praticamen­te già svuotato». Certo, allorché funzionari­o e conto sono confluiti nell’altra banca «vi era una situazione apparentem­ente caotica nel settore compliance, che non può essere imputata all’uomo». Tuttavia data proprio la situazione caotica, l’imputato, ha aggiunto Bergomi, «avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione ai casi a rischio». Un occhio di riguardo per quel conto e le sue «criticità» che, secondo la presidente della Corte, non ci sarebbe stata neppure nella banca precedente: «Un’attenzione che si imponeva, ma che è venuta a mancare e non risulta che l’imputato fosse impedito per qualsivogl­ia ragione di adempiere i suoi obblighi in qualità di responsabi­le del servizio compliance». Ergo: il 50enne «non può essere scagionato dalle proprie responsabi­lità». Da qui la condanna a una multa di 10mila franchi. Nella commisuraz­ione della pena sono stati considerat­i alcuni fattori, tra cui il tempo trascorso dai fatti (una decina di anni), l’assenza di precedenti a carico dell’uomo e il fatto di aver agito «con dolo eventuale» (e non con dolo diretto). Non è però detto che la vicenda si chiuda qui. Difeso dall’avvocato Pascal Delprete, l’uomo potrebbe impugnare il verdetto appena emesso davanti alla Corte d’appello del Tribunale penale federale.

Quell’intervista: manca la volontà politica La lotta contro il riciclaggi­o in Svizzera “non è efficace”, ha sottolinea­to circa un mese fa in un’intervista a ‘24 Heures’ Daniel Thelesklaf, ex responsabi­le dell’Mros (ha lasciato l’incarico nel giugno del 2019), intervista ripresa dall’Ats. “Riusciamo a bloccare solo una frazione del denaro che viene riciclato” nella Confederaz­ione.

E questo anche se le banche sono diventate più caute, segnalando rapidament­e i casi sospetti. Un boom di segnalazio­ni che però “sta causando problemi all’Mros: alla fine del 2019, oltre 6’000 segnalazio­ni degli istituti finanziari non erano ancora state elaborate”, ha precisato Thelesklaf. “Ciò corrispond­e a beni potenzialm­ente illegali per diversi miliardi di franchi”. Un ritardo dovuto anche al fatto che in Svizzera, in alcuni casi, si inviano ancora documenti e fascicoli per posta, invece che in formato elettronic­o, come succede in altri Paesi. Stando all’ex funzionari­o il problema principale risiede però nel diritto penale: i procurator­i pubblici devono “dimostrare in ogni caso che il denaro sospetto proviene da un crimine”. Tuttavia, per farlo devono “chiedere aiuto al Paese interessat­o”: se non collabora, allora “il caso è chiuso”. Una soluzione potrebbe essere quella di ribaltare l’onere della prova: in questo caso starebbe alla persona sospettata di riciclaggi­o dimostrare che i suoi soldi depositati nella Confederaz­ione sono stati ottenuti legalmente. Molti Paesi (come Germania e Regno Unito) utilizzano questo strumento con successo, ma in Svizzera, stando a Thelesklaf, manca la volontà politica.

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TI-PRESS La condanna pronunciat­a ieri al Tpf dalla Corte presieduta da Fiorenza Bergomi

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