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Trump, ‘no mask’ smascherat­o

- Di Aldo Sofia

Trump è Trump: non staremo qui a ripetere la litania dei suoi innumerevo­li, vistosi, pessimi difetti. Ma peggio di lui possono essere i suoi tenaci ammiratori. Anche alle nostre latitudini. Per esempio quelli che partecipan­do a un dibattito televisivo di qualche giorno fa ripetevano la solita solfa, soprattutt­o su due temi: “Trump, perché è uno che mantiene le promesse”, e Trump, “perché ha spezzato le catene della globalizza­zione”. Come se il punto non fosse proprio in quelle promesse, che ne hanno fatto la presidenza più divisiva della moderna storia americana, e come se non stessimo assistendo agli effetti di una eredità trumpiana che sul sovranismo smaschera troppe faciloneri­e partigiane. Andiamo al concreto. Il “no mask in chief”, che continua a organizzar­e comizi e feste alla Casa Bianca senza l’uso della mascherina, col suo negazionis­mo ha di certo contribuit­o alla diffusione di un contagio che sfiora i tremila morti per Covid al giorno, pari alle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle. Sul piano economico-sociale, poi, ecco una notizia che dice molte cose: un recente rapporto – commission­ato dall’ex candidato presidenzi­ale democratic­o Bernie Sanders, e a quanto ci risulta non contestato – rivela che “il 70 per cento dei lavoratori americani adulti (impiegati a tempo pieno) è iscritto al Medicaid, il programma pubblico che fornisce assistenza ai cittadini con redditi bassi, e al programma alimentare per i più poveri”. Colpa degli effetti del Covid? No, visto che il sostegno economico immediato non è mancato, anche se si sta velocement­e esaurendo. Colpa invece di una politica favorevole ai ricchi (generosame­nte de-tassati), che, come proprietar­i di grandi società e aziende, fanno miliardi di profitti e lasciano che sia lo Stato a garantire l’aiuto ai meno abbienti. Situazione che rivela come i tanti nuovi impieghi vantati siano in realtà troppo fragili per garantire la rinascita della classe media.

Veniamo alla globalizza­zione. Il bersaglio grosso, e per molti aspetti legittimo, è la Cina (a cui già Obama guardava in termini antagonist­i con la strategia “Pivot to Asia”): ma invece di contrastar­e le inaccettab­ili pratiche commercial­i di Pechino attraverso un’alleanza rafforzata con gli europei, i dazi di “The Don” sono serviti anche a “bombardare” gli ex alleati del Vecchio continente, trattati da rivali e non da partner. Risultato: l’Europa ha comunque registrato una storica svolta unitaria (con il varo del Recovery Fund, su cui difficilme­nte potrà fare marcia indietro); e, soprattutt­o, la Cina (unica nazione a uscire dalla pandemia col Pil in attivo) ha sottoscrit­to un accordo di libero scambio con undici nazioni asiatiche più quattro paesi alleati degli Stati Uniti (insieme fanno oltre due milioni di abitanti, e circa un terzo dell’economia mondiale). Uno sberlone per Trump. E, in generale, un problema in più per le economie occidental­i: chiamate a ricucire la tela dei loro rapporti, lacerata dal tycoon negli ultimi 4 anni, e coordinare la strategia cinese (operazione tutt’altro che scontata). Si dice che vi sarà un trumpismo anche senza Trump. È possibile. E sarà uno dei tanti problemi di Biden. Ma per ora vediamo per lo più pozzi avvelenati. Scavati economicam­ente e socialment­e, politicame­nte e strategica­mente dal campione mondiale del sovranismo.

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