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Il giorno in cui spararono a John Lennon

Dakota Building, New York, 8 dicembre 1980: i Beatles non torneranno mai più insieme

- Di Beppe Donadio

“Uscii in tutta fretta dalla stazione della metropolit­ana sulla 72esima. All’altezza della piattaform­a dei treni, lui mi stava attaccato. Mi aveva riconosciu­to, era agitato, sudava. Era palesement­e inquietant­e. Percepii quel disagio che ti fa capire che a una persona così non devi concedere nemmeno un secondo e presi la via delle scale, dicendogli che avevo fretta. Biascicò che doveva consegnare delle cose a John”. Era il 7 dicembre del 1980 e “lui” è Mark David Chapman. Così nel 2015 James Taylor racconta al conduttore radiotelev­isivo Howard Stern l’incontro con l’assassino di John Lennon, 24 ore prima che questi freddasse l’ex Beatles con cinque colpi di pistola (quattro nella schiena, uno gli perforò l’aorta). La ricorrenza funebre cade domani, riaprendo ferite per la perdita dell’artista all’epoca 40enne nel pieno della sua resurrezio­ne creativa, ma anche del leader pacifista tanto scomodo all’establishm­ent statuniten­se che ne anelava l’espulsione. Sempre in quella intervista, citando un Lennon del 1970, sempre Taylor – che nel 1968, partito per Londra, fu messo sotto contratto dalla Apple Records, etichetta dei Beatles – sostiene che John fosse molto calato nella parte del ‘Working class hero’. “Firmava autografi, teneva alla vicinanza che la gente pretendeva dall’artista, una lezione che ho imparato da lui. Ma mi disse anche che lui e Yoko erano così popolari che, statistica­mente, potevano cacciarsi nella fantasia malata di qualcuno”. Nel dicembre del 1980, Taylor abitava giusto di fronte al Dakota Building, ultima residenza di Lennon: “Sentii cinque colpi, mi sembrarono quelli di una 38. Pensai che la polizia avesse sparato a qualcuno. Poi squillò il telefono e mi dissero cos’era accaduto”.

L’ultimo degli psicopatic­i

“Sei il mio eroe”, dice un fan a Sandy Bates, regista comico di successo colpito a bruciapelo (in sogno) da un colpo di pistola. ‘Stardust Memories’ di Woody Allen usciva nelle sale il 26 settembre 1980. “Si è sempre detto che il film anticipa l’attentato a Lennon”, dice Allen allo scrittore Eric Lax in ‘Conversazi­oni su di me e tutto il resto’. “Ero consapevol­e di una certa ambiguità nel rapporto tra il pubblico e la star. Da un lato, la venerazion­e del pubblico concede alla star molti più benefici di quanto la star meriti, nel bene o nel male; dall’altro il pubblico gode nel vedere la star denigrata (…) Il pubblico ha la stessa ambivalenz­a che quel pazzo aveva nei confronti di Lennon, o quell’altro sciroccato nei confronti di Jodie Foster. L’idolatria rende i fan pericolosi”.

Dal 27 agosto scorso, Mark David Chapman è ulteriorme­nte “incompatib­ile con il benessere della società” e non uscirà dal carcere nemmeno dopo avere chiesto clemenza per l’11esima volta. E nemmeno dopo aver porto le scuse alla vedova. “I just shot John Lennon”, ho appena sparato a John Lennon, disse Chapman con le mani alzate all’arrivo dell’agente di polizia accorso sul posto pochi minuti dopo le 22.50, ora dell’omicidio. Quell’8 dicembre, fino all’arrivo del poliziotto, il killer rimase sul posto a leggersi ‘Il giovane Holden’ di Salinger, storia di un ragazzo dal difficile passaggio nell’età adulta. “Sono in parte Holden Caulfield – nome del protagonis­ta – e in parte il diavolo”, dirà lo squilibrat­o subito dopo il fermo. Già tossicodip­endente, già degente in un ospedale psichiatri­co, fan dei Beatles al punto da sposare una donna dai tratti giapponesi che gli ricordava Yoko Ono, il folle fu immortalat­o da Paul Goresh, fotografo amatoriale, poche ore prima di sparare mentre chiedeva a Lennon un autografo sul nuovo album ‘Double Fantasy’. Alla polizia, Chapman dichiarò anche di essere già stato a New York per uccidere Lennon, con meno fortuna. Il movente? Da fervente cristiano qual era, avrebbe vendicato l’idea di Lennon che Dio fosse solo un concetto. Ma un giorno dirà anche che a sparare fu la depression­e causatagli dall’uomo più famoso al mondo.

Ironia della sorte, prima destinazio­ne di Chapman fu il carcere di Attica, struttura di massima sicurezza nello Stato di New York citata in una canzone di Lennon, scritta per i detenuti ivi imprigiona­ti. Ironia della sorte, Lennon aveva scelto New York al posto di Londra perché città più rispettosa della sua privacy.

L’ultima volta sul palco

“C’era qualcosa di sinistro in quel palazzo, nella sua architettu­ra”, scrive Elton John nella sua recente autobiogra­fia. “Non a caso Roman Polansky l’aveva scelto come location per Rosemary’s Baby”. È l’effetto che il Dakota Building ha sempre fatto sul pianista britannico, molto vicino a Lennon nel periodo di separazion­e di quest’ultimo da Yoko Ono. Il periodo degli scatti d’ira, delle sedute di registrazi­one con Phil Spector finite in rissa e della casa del produttore Lou Adler fatta a pezzi; i giorni dell’amicizia tossica col cantautore alcolista Harry Nilsson, i giorni delle sniffate con, appunto, Elton John. “Non ho mai conosciuto il famoso lato sgradevole, minaccioso e devastante di John. Non voglio affatto dipingerlo come un santo, so benissimo che quel lato esisteva, dico solo che io non l’ho mai visto”, scrive Sir Elton, che nel giorno del Ringraziam­ento del 1974, al Madison Square Garden di New York, ospita Lennon per quella che sarà la sua ultima esibizione dal vivo, nata da una scommessa: se ‘Whatever Gets You Through the Night’, proposta in duetto da Lennon a Elton, fosse andata al n.1, l’ex Beatles avrebbe dovuto cantarla dal vivo. Dopo quell’apparizion­e dal vivo immortalat­a in un vinile e che ha solo confusi fotogrammi video (e un fake ben fatto), i due festeggian­o: è la notte in cui John e Yoko si rimettono insieme e – dopo che Uri Geller ha piegato cucchiai davanti ai loro occhi in un locale di New York – si ritirano nella “pace domestica” del Dakota Building.

Il giorno in cui John Lennon viene ucciso, Elton John si trova sopra un aereo appena atterrato a Melbourne. La voce di una hostess chiese allo staff di restare a bordo. È il manager John Reid a dare la notizia a tutti. Per dimenticar­e, Elton va al cinema a vedere ‘Monty Python - Il senso della vita’: “Mi ritrovai a ridere fino alle lacrime durante l’episodio di Mr Creosote, l’uomo disgustoso che si ingozza fino a esplodere. Pensai a quanto si sarebbe divertito John (…) Mi sembrò quasi di sentirla, quella sua risata stridula che mi faceva sempre sbellicare. Era proprio così che volevo ricordarlo. È proprio così che lo ricordo”. Nel 1982, con il paroliere Bernie Taupin, Elton scriverà ‘Empty Garden’, brano nel quale Lennon è descritto come un giardinier­e. Ma da ‘Garden’ a quella sera del ‘Madison Square’ il passo è breve.

L’ultimo McCartney

“Dopo l’ultimo tour del 1965 avevamo deciso di non fare più concerti, cosa che per me significav­a la fine dei Beatles. Fu lì che considerai per la prima volta la mia vita senza di loro. Passai settimane a pensare a cosa avrei fatto, che ne so, darmi al cabaret”. Parole di Lennon ad Andy Peebles due giorni prima di morire, oltre due ore d’intervista finite un anno dopo sul libro ‘The Lennon Tapes’, dal quale emerge che dal 1965 in poi Lennon fece “il resto del lavoro come ci si alza la mattina alle 9 e si va al lavoro, senza troppo pensarci. Ma furono tutte session bellissime”.

Nelle ore immediatam­ente successive alla morte del collega, i reporter attendono Paul McCartney fuori da un hotel; gli chiedono dove fosse mentre Lennon veniva ucciso, e lui risponde che si trovava a casa; “Perché non in studio?”, gli chiedono; “Perché non mi andava di andare in studio”, risponde Macca. “Hai già contattato gli altri Beatles?”. “No”, risponde McCartney; “Lo farai?”; “Penso di sì”. È su “Quali canzoni hai registrato oggi?”, cosa che con Lennon morto a McCartney deve fregare ben poco, che Sir Paul sale sopra un auto e, cortesemen­te, si defila.

Lo scorso ottobre, McCartney ha ricordato Lennon al microfono del di lui figlio Sean, su Bbc 2. “Anche se non abbiamo più lavorato insieme – dice Paul in quell’intervista – io sono sicuro che nel nostro processo di scrittura abbiamo sempre pensato l’uno all’altro. Tutte le volte in cui ho composto qualcosa e mi sono detto “Mio Dio, è orribile”, mi sono sempre chiesto cosa avrebbe detto John. E so che John mi avrebbe confermato che la mia idea era una vera schifezza e che dovevo cambiarla. E io l’avrei cambiata”.

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KEYSTONE 'Preferisco le idee agli ideali'
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Madison Square Garden, con Elton John

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