‘Fu la fine di un certo modo di essere cantanti’
«Ricordo dov’ero quando morì Bob Marley, quando spararono al Papa, quando ammazzarono Falcone, ricordo l’11 settembre. Di Lennon stranamente non so dire, se non che la sua morte mi fece una grandissima impressione». Eugenio Finardi, di madre americana, New York la conosce bene. Beatlesiano come molti grandi, per formazione, per ideale, racconta a laRegione: «Nella mia vita ho incontrato tre Beatles su quattro. Ho vissuto la morte di Lennon quasi in contemporanea a quella di Demetrio Stratos. Le loro morti segnarono per me la fine di un certo modo di essere cantanti. C’è gente che oggi mi scrive “perché non canti invece di occuparti di politica?”». Cita anche Bob Marley, Finardi, «un altro che mise l’arte al servizio dell’impegno politico». Stratos morto nel giugno del 1979, Marley nel maggio del 1981: «Due simboli, sintesi del mondo musicale in cui eravamo cresciuti, quello della musica che doveva cambiare il mondo». O la musica che voleva il mondo una cosa sola, come in ‘Imagine’: «Quel brano è il canovaccio del mondo come dovrà per forza essere in futuro, non come dovrebbe essere. Un mondo unico, pur di culture diverse. Lo vedo nel mio caso vivendo l’Italia e il Ticino, terre che vedo come una città unica che include Roma, Napoli, Lugano, una città dentro la quale Milano è solo il mio borgo, il mio quartiere». A proposito del Finardi americano di madre: «Abitava nella 66esima West, a meno di mezzo chilometro dal Dakota, che sta sulla 72esima, Central Park. Andando a fare la spesa passavo da Strawberry Fields, luogo dell’anima, il memorial». Di quel Lennon così pubblicamente esposto, dice: «A tutti fa piacere la vicinanza del pubblico, soprattutto a New York dove i fan non sono ‘appiccicosi’. Perché i fan si dividono in quelli che ti saltano addosso e quelli che comunicano sinceramente, incontri che scaldano il cuore. Io credo che Lennon volesse tornare a essere normale, lo si leggeva in ‘Jealous Guy’, in ‘Working Class Hero’, canzoni che elevavano l’essere umano ‘normale’, l’essere umano semplice, a una dimensione di quasi sacralità. La sacralità della normalità, la definirei. Se vedi dov’è il Dakota, capisci come mai tutti vogliono vivere a New York, dove se s’incontra per la strada Mick Jagger lo si lascia vivere». Un po’ come in Ticino? «No, in Ticino di più. Qui diventi subito uno del crotto: “Oh, lo sai che ieri c’era su il Miles Davis? Era lì che suonava col Wayne Shorter…”. Ma varrebbe anche se incontrassero per strada la regina Elisabetta. I ticinesi sono eccezionali in questo».
Chiuso il momento multilinguistico, con inflessione credibilissima, Eugenio Finardi si commuove sulla domanda impossibile, ovvero che cosa farebbe oggi John Lennon se solo Mark David Chapman avesse sbagliato fermata del metro: «Hai presente il film ‘Yesterday’, quando incontrano Lennon? Ecco, solo a parlarne mi viene da piangere». Un piangere telefonico contenuto ma reale, comprensibile a chi ha visto quel film di Danny Boyle, nel quale, per un evento inspiegabile, i Beatles non sono mai esistiti: «Te lo dico dalla parte di uno che ha avuto il suo attimo di fama, assolutamente non comparabile a quella di Lennon: vederlo lì, in quella scena, tranquillo sulla spiaggia, con la barca che ha chiamato ‘Imagine’, in quel momento sono veramente esploso a piangere. Quindi, chissà, ‘what if ’». Per concludere: «Quella di Lennon è la morte stupida, la fama stupida che si cerca anche oggi, che per Chapman fu la fama di chi avrebbe ucciso Lennon. Che schifo, quanta mediocrità».