Verso il secondo impeachment
I Dem formalizzano la richiesta. L’accusa per Trump: incitamento all’insurrezione.
Washington – “Incitamento all’insurrezione”, per aver istigato i propri sostenitori ad assaltare il Congresso contestando la certificazione della vittoria di Joe Biden: ieri i deputati democratici hanno presentato formalmente alla Camera l’unico articolo per l’impeachment di Donald Trump, il secondo dopo quello (fallito) per l’Ucrainagate. Ma prima di metterlo ai voti hanno fatto un ultimo tentativo con Mike Pence perché invocasse il 25esimo emendamento per rimuovere il presidente. “Trump non dovrebbe essere in carica, punto”, ha tagliato corto in serata lo stesso Biden, mentre crescono gli allarmi dell’Fbi su nuove proteste nella capitale e in tutto il Paese in vista del giuramento del democratico. In un’altra giornata convulsa per la politica americana, i democratici hanno chiesto ai repubblicani il consenso a introdurre una mozione che spinge il vicepresidente a destituire immediatamente Trump, ma la loro opposizione ha indotto la speaker della Camera Nancy Pelosi a metterla ai voti domani in aula. Dopo la sua approvazione, Pence avrà 24 ore di tempo per rispondere. Il vicepresidente, che ha già preso le distanze da Trump e ha annunciato la sua partecipazione all’insediamento di Biden il 20 gennaio, ha fatto sapere che è disponibile a ricorrere al 25esimo emendamento solo nel caso in cui il Commander in chief mostrasse ulteriori segni di instabilità. Ma per farlo ha bisogno anche della maggioranza del governo (otto ministri). Se poi il presidente si opponesse, alla Camera sarebbero necessari i due terzi dei voti per cacciarlo e non è detto che si trovino. Molti repubblicani preferirebbero una mozione di censura. Se comunque Pence rispondesse picche, la Pelosi farebbe scattare subito la procedura di impeachment, con un voto atteso per mercoledì: la mozione è già stata firmata da 218 deputati dem, ossia la maggioranza semplice necessaria per approvare il provvedimento. Si fa largo poi l’ipotesi di inviare la trasmissione del capo di imputazione al Senato, e il relativo processo, dopo i primi cento giorni dell’insediamento di Biden, per consentirgli di incassare velocemente la conferma delle nomine di governo ed avviare la sua agenda. In ogni caso al Senato sarebbero necessari i due terzi dei voti: all’appello mancano 17 repubblicani e finora solo un paio hanno invitato Trump a dimettersi.
“La complicità dei repubblicani con Donald Trump mette in pericolo l’America”, ha denunciato Pelosi presentando l’articolo di impeachment che cita non solo il discorso incendiario del presidente ai suoi fan prima dell’assalto a Capitol Hill, ma anche le sue false dichiarazioni di vittoria e le pressioni in Georgia per ribaltare l’esito del voto in quello Stato. Una ‘condanna’ dell’uscente gli impedirebbe di ricandidarsi nel 2024.
Ora l’Fbi teme nuove, violente proteste tra il 16 e il 20 gennaio, con possibili attacchi anche ai legislativi statali. Online c’è chi sta cercando di organizzare una nuova marcia per il giorno dell’insediamento di Biden, la ‘Million Militia March’. La sindaca della capitale Muriel Bowser ha chiesto un rafforzamento della sicurezza ed entro il fine settimana saranno dispiegati sino a 10mila uomini della Guardia nazionale, 15mila invece il giorno del giuramento di Biden, quando Capitol Hill sarà come un fortino protetto anche da un’alta recinzione metallica.
LA RICOSTRUZIONE Come è stato possibile
Da settimane scrivevano sui social media che “il Campidoglio è la nostra meta. Tutto il resto è una distrazione”. Parlavano di “occupare” la città. Discutevano di dove piantare le tende in caso di assalto a Capitol Hill, e corredavano il tutto con foto di armi. Eppure, quando sono arrivate a Washington lo scorso 6 gennaio, le milizie proTrump hanno preso completamente di sorpresa le forze dell’ordine. Come è stato possibile? Tra le molte ricostruzioni di questi giorni spicca quella del ‘New York Times’ (Nyt), che testimonia di una totale mancanza di coordinazione tra i vari dipartimenti responsabili per la sicurezza della capitale. Perfino la sindaca Bowser aveva sottovalutato il pericolo, chiedendo sì il dispiegamento di 340 agenti della Guardia nazionale, ma solo per compiti come dirigere il traffico. Stessa imprudenza emerge dalle (non) decisioni dei responsabili della sicurezza del Congresso e della Capitol Police, il cui capo Steven
Sund si è poi dovuto dimettere. Ritardi gravi si sono registrati anche nella mobilitazione dei rinforzi dopo l’attacco. Sarebbe stato il vicepresidente Mike Pence a dare il via libera all’impiego di 1’100 agenti della Guardia nazionale, che però ha avuto bisogno di ore per intervenire. Secondo il Nyt il presidente Donald Trump sarebbe stato riluttante: lui ha smentito, sostenendo di essersi mosso personalmente. È presto per capire se dietro agli errori vi sia stata anche una volontà politica: alcuni osservatori riscontrano nell’atteggiamento distratto del Dipartimento della sicurezza nazionale – il cui capo Chad Wolf si è dimesso ieri – una sorta di connivenza poi sfuggita di mano, ma resta tutto da dimostrare.
Quel che è certo è che su Facebook, Twitter, Instagram – ma anche sui social alternativi come Parler, privilegiati dai neofascisti – i segni di quello che stava per accadere c’erano tutti, e le autorità lo sapevano: l’Fbi si era mobilitata per interrogare gli elementi più pericolosi e dissuaderli dal raggiungere Washington. Troppo poco, troppo tardi. Specie se si confrontano le immagini dell’Epifania con quelle delle marce di Black Lives Matter in estate: in quel caso la città era blindata da agenti in tenuta antisommossa, che non si sono fatti molti problemi a usare lacrimogeni e manganelli.
Intanto si sa qualcosa di più sulla natura dell’attacco. Tra le centinaia di partecipanti è stata confermata la presenza di uomini armati. Oltre alle due bombe depositate presso le sedi di Democratici e Repubblicani e rimaste inesplose, le armi da fuoco sequestrate nelle vicinanze del Congresso includono fucili semiautomatici, pistole e molotov. La maggior parte degli ‘insorti’ si è limitata ad atti dimostrativi e teppistici – i selfie coi piedi sulle scrivanie, la rimozione di palchetti e insegne –, ma qualcuno sarebbe entrato con granate stordenti e fascette di plastica per legare i polsi di deputati e senatori. A salvarli potrebbe essere stata l’azione provvidenziale di un poliziotto afroamericano, Eugene Goodman: inseguito dalla folla, ha avuto la prontezza di scappare in direzione opposta all’aula del Senato non ancora messa in sicurezza. Nei giorni scorsi sono state arrestate decine di manifestanti, molti affiliati a gruppi fascisti come i ‘Proud Boys’ o legati a Qanon, il gruppo di chi crede che vi sia un complotto democraticosatanista-pedofilo per controllare il mondo; l’Fbi lo ha inserito tempo fa nella lista delle minacce terroristiche. Ma preoccupa anche l’arresto di numerosi agenti di polizia confluiti per la protesta da ogni angolo del Paese.