‘Modesta evoluzione’ su diritti e ambiente
Il ‘nodo’ è l’olio di palma. Walder (Verdi) deplora l’assenza di norme vincolanti.
Dannoso per l’ambiente e per l’economia locale, sia in Svizzera che nel Paese asiatico. È lapidario il giudizio portato dal comitato referendario ‘Stop olio di palma’ sull’accordo di libero scambio tra la Svizzera e l’Indonesia (cfr. sotto), di cui l’olio di palma – presente, in modo più o meno visibile, in innumerevoli prodotti alimentari che consumiamo quotidianamente – rappresenta l’aspetto più controverso. L’Associazione svizzera per un settore agroalimentare forte, invece, non sostiene il referendum, dicendosi soddisfatta delle garanzie ottenute in materia di importazioni (contingenti), sviluppo sostenibile e tracciabilità. La campagna per la votazione del 7 marzo è partita ieri. ‘laRegione’ ne ha parlato con il consigliere nazionale ginevrino Nicolas Walder (Verdi), membro del comitato che si batte contro l’accordo.
Signor Walder, la vostra è un’altra crociata ideologica contro il libero scambio e il neoliberismo?
No, affatto. I Verdi hanno sempre cercato di migliorare quest’accordo con l’Indonesia. Su una cosa in particolare non transigiamo: le disposizioni sulla sostenibilità ambientale e i diritti umani devono avere carattere vincolante.
Cosa intende?
L’accordo prevede un meccanismo di composizione delle controversie che copre buona parte del suo campo d’applicazione: se la Svizzera e l’Indonesia non rispettano le regole, possono essere oggetto di una procedura d’arbitrato e andare incontro a sanzioni. Questo non è il caso se uno degli Stati firmatari non rispetta le norme relative alla sostenibilità, ai diritti umani e ai diritti del lavoro. L’accordo specifica esplicitamente che questi aspetti non sono sottoposti al meccanismo di composizione delle controversie. Così, ad esempio, una comunità locale spogliata delle sue terre per far posto a una piantagione di palma da olio ‘certificato’ non potrà far sentire la propria voce nel quadro di una procedura arbitrale. Se i due Paesi fossero davvero seri nella loro volontà, dichiarata, di importare ed esportare olio di palma prodotto in modo sostenibile, perché non hanno accettato che il capitolo sulla sostenibilità fosse sottoposto alla procedura arbitrale?
Il consigliere federale Guy Parmelin parla di un accordo ‘di nuova generazione’.
La novità è piuttosto l’ampia portata dell’accordo. Ma per quanto riguarda la sostenibilità e i diritti umani, questo non è affatto ambizioso. Non siamo molto più avanti dell’accordo di libero scambio con la Cina [in vigore dal 2014, ndr]. A mio avviso non si può parlare di una rottura rispetto al passato. Parlerei semmai di una modesta evoluzione: nella giusta direzione, ma ben lungi dall’essere sufficiente.
Public Eye, Greenpeace e la Federazione romanda dei consumatori, solitamente battagliere, non combattono l’accordo.
Non lo sostengono nemmeno, però. Tranne il Wwf, nessuna organizzazione ambientalista o di difesa dei diritti dell’uomo lo sostiene.
Per la prima volta in un trattato commerciale firmato dalla Svizzera, viene accordato un trattamento doganale preferenziale a un bene (l’olio di palma, appunto) prodotto in modo sostenibile. Un approccio innovativo, la cui potenzialità potrebbe venir pregiudicata da un ‘no’ il 7 marzo.
Al contrario: un ‘no’ critico come il nostro rafforzerebbe la posizione del Consiglio federale in futuri negoziati per accordi di questo tipo, col Mercosur e la Malesia ad esempio. Non dimentichiamo che l’olio di palma sarebbe l’unico prodotto a venire regolamentato, in particolare attraverso contingenti e una riduzione dei dazi doganali su quello ‘sostenibile’. Ma la problematica della sostenibilità e dei diritti umani si pone pure per altri prodotti. Basti pensare ai pesticidi impiegati anche per coltivare mango, papaya e cocco.
Temete anche un’ulteriore pressione sui prezzi dell’olio di colza e dell’olio di girasole svizzeri. Ma i dazi doganali sull’olio di palma sostenibile non verranno aboliti, soltanto ridotti del 20-40%.
Oggi i contadini svizzeri subiscono già una forte concorrenza dall’olio di palma, nonostante i dazi doganali esistenti. Questo problema verrà probabilmente accentuato a causa di questo accordo.
L’accordo però prevede che il volume totale importato nella Confederazione rimanga stabile: 10mila tonnellate, da aumentare a 12’500 nell’arco di cinque anni.
Attualmente, la maggior parte dell’olio di palma importato in Svizzera proviene dalla Malesia e non è certificato. Con questo accordo, fissiamo un contingente generoso per l’Indonesia. L’olio di palma certificato indonesiano andrà ad aggiungersi a quello malesiano? Oppure lo rimpiazzerà in parte, come sostiene Guy Parmelin? Non lo sappiamo. Temo che alla fine avremo un forte aumento del volume complessivo di olio di palma importato. Credo inoltre che, per una questione di immagine e di costi, avremo aziende che decideranno di far capo a olio di palma certificato al posto di olio di girasole o di colza. E già oggi l’olio di palma, malgrado i dazi relativamente elevati, è meno caro di qualsiasi altro olio sul mercato.
La certificazione sull’origine dell’olio di palma: è il tasto dolente?
L’ordinanza già inviata in consultazione dal Consiglio federale propone quattro sistemi di certificazione, due dei quali sono problematici: i criteri non sono sufficientemente severi. Va ricordato che olio di palma ‘certificato’ non vuol dire olio sostenibile: significa olio un po’ meno problematico di quello non certificato, nulla di più. Un altro problema, poi, è che i controlli sul posto – per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, la deforestazione, l’uso dei pesticidi o altro – sono ampiamente insufficienti. Infine, l’unica ‘sanzione’ cui va incontro un’azienda svizzera che dovesse importare olio di palma ‘normale’ quando invece è ‘sostenibile’, è che per quella partita non beneficerà della riduzione dei dazi doganali.