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‘A un passo dalla salvezza’, ma a volte non bastava

Gli ebrei in fuga dal Terzo Reich e l’ambigua politica svizzera: intervista a Silvana Calvo

- Di Lorenzo Erroi

“La memoria”, scriveva Eudora Welty, “può essere ripetutame­nte ferita”, ma “finché resta vulnerabil­e alla vita, vive per noi, e possiamo riconoscer­le quanto dovuto”. L’americana non pensava all’Olocausto, a dirla tutta, ma sono parole che tornano in mente parlando con la ticinese Silvana Calvo, autrice di opere quali ‘1938: anno infame’, ‘A un passo dalla salvezza’ e ‘L’informazio­ne rifiutata’. Il suo interesse storico nasce da vecchie riviste pescate nei cassetti del padre, si intreccia con l’impegno civile – è stata presidente del Movimento contro il razzismo – e prende di petto le ambivalenz­e svizzere rispetto al Terzo Reich.

Nel suo saggio ‘A un passo dalla salvezza. La politica svizzera di respingime­nto degli ebrei durante le persecuzio­ni 1933-1945’, lei parte da un episodio emblematic­o: la lettera che una classe di ragazze quattordic­enni di Rorschach (San Gallo) scrisse nel 1942 al Consiglio federale, implorando­lo di non respingere “oltre il confine questi esseri infreddoli­ti e tremanti”.

Quell’episodio rivela aspetti e limiti dell’accoglienz­a svizzera. Intanto dimostra che se persino ragazzine delle medie erano al corrente del destino degli ebrei in Germania, significav­a che era di dominio pubblico. Più tardi si è preferito dire che all’epoca “non si sapeva”. La lettera provocò molto imbarazzo a Palazzo Federale. L’allora Consiglier­e federale Eduard von Steiger, quello che aveva detto “la barca è piena”, trasformò la vicenda in un affare di Stato. Intendeva rispondere in modo duro: incriminar­e un docente e confutare gli argomenti delle ragazze con una lettera di rimprovero. Alla fine si astenne per motivi di convenienz­a.

Come cambiò la politica d’accoglienz­a nel corso del conflitto?

Le scelte sulla politica verso i profughi non maturavano negli ambienti politici e di governo bensì in seno alla ‘Divisione di Polizia’. È lì che si valutò il ‘pericolo’ che costoro avrebbero rappresent­ato per la nazione e si stabilì quale fosse ‘il bene per il paese’. Heinrich Rothmund diresse questo ufficio per 35 anni, dal 1919 al 1954. In questo periodo si sono avvicendat­i in governo molti Consiglier­i federali che nel loro agire si sono basati più sulla sua ‘competenza’ in materia che non su loro proprie valutazion­i. Il principio base è sempre stato quello di accogliere in ogni momento il minor numero di profughi possibile. È del 1933 la prima circolare che stabiliva che “i profughi per motivi razziali non sono rifugiati politici” e quindi andavano respinti perché non erano in pericolo in quanto ebrei. Questa frase si è puntualmen­te ripetuta in tutte le successive ordinanze, fino alla fine del 1943.

La politica d’asilo dipese in gran parte dalla situazione internazio­nale, dall’andamento del conflitto e dagli umori della popolazion­e.

La prima ondata arrivò da Nord nel 1933, con l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Arrivarono circa diecimila ebrei. A loro veniva accordato un permesso di tre mesi rinnovabil­e. Allora la situazione internazio­nale era ancora tranquilla ed era possibile spostarsi da un paese all’altro. La maggioranz­a lasciò presto la Svizzera.

La seconda ondata arrivò da Est nel 1938, dopo l’Anschluss austriaca. In quel momento all’orizzonte incombeva già lo spettro della guerra. Tutti i paesi si stavano chiudendo a riccio e non ne volevano sapere di profughi. Per tener fuori dai confini gli ebrei, la Svizzera introdusse dapprima il visto obbligator­io e in seguito negoziò con la Germania una “J” sul passaporto degli ebrei, per facilitare la loro identifica­zione alle frontiere e semplifica­re il respingime­nto. Quando scoppiò la guerra la Svizzera ospitava 5mila profughi ebrei.

Nel 1942, quando da Ovest arrivò la terza ondata, ormai l’Europa era in guerra da tre anni, la Germania aveva occupato gran parte dell’Europa e la Svizzera era circondata dai paesi dell’Asse. Quell’estate, nel Benelux e in Francia vi furono grandi retate di ebrei, come ad esempio quella del Velodromo d’Inverno, con conseguent­e deportazio­ne in Polonia. All’arrivo dei primi profughi alle frontiere occidental­i la Divisione di Polizia reagì immediatam­ente, mandando al governo rapporti allarmanti su una possibile incontenib­ile invasione. Il 13 agosto, il presidente della Confederaz­ione Philipp Etter interruppe le sue vacanze per decretare il blocco delle frontiere specifican­do: “È d’obbligo che, in futuro, avvengano in misura maggiore respingime­nti di profughi civili, anche se agli stranieri colpiti deriverann­o svantaggi seri, pericoli per l’integrità fisica e la vita”.

Poi c’è la quarta e ultima fase, quella che tocca più da vicino il Ticino: l’afflusso di profughi da Sud – invero perlopiù ‘gentili’ – a partire dal 1943, man mano che le cose si mettono male per l’Asse mentre i fascisti, ormai di fatto ridotti a un protettora­to della Wehrmacht, mettono in piedi la Repubblica di Salò.

Quando arrivò la quarta ondata da Sud, ormai si iniziava a capire chi alla fine avrebbe vinto la guerra. Dall’Italia arrivarono soprattutt­o militari che non intendevan­o arrendersi alla Wehrmacht. Il 30 novembre 1943, Mussolini emise un decreto che ordinava che tutti gli ebrei italiani e stranieri venissero arrestati e i loro beni confiscati. A quel punto per la Svizzera non fu più possibile argomentar­e che essi non erano in pericolo di vita a causa della loro razza. Ciò comportò un’attenuazio­ne del rigore: vennero accolte le famiglie con bambini, anziani, ammalati eccetera. I respingime­nti non cessarono del tutto. Vi è stata una disposizio­ne ufficiosa alle guardie del confine meridional­e che diceva: provate a respingerl­i, ma se proprio insistono lasciateli entrare.

Che ruolo ebbe la politica ticinese?

In Consiglio di Stato c’era Guglielmo Canevascin­i, un fervente antifascis­ta: lo stesso uomo che più tardi, in barba alla neutralità si sarebbe recato in visita ufficiale alla Repubblica partigiana dell’Ossola (durata poco più di un mese, dal 10 settembre al 23 ottobre 1944, ndr). Si fece uno sforzo per mitigare il rigore di Berna, nei limiti della poca autonomia concessa ai Cantoni sull’immigrazio­ne. Nel corso di quest’ultima fase restò comunque un ampio margine d’arbitrio per le guardie di confine, come dimostra il respingime­nto di Liliana Segre e di suo padre, poi internati ad Auschwitz.

A determinar­e la politica di Berna era anche un antisemiti­smo pregresso?

Un antisemiti­smo endemico è da riscontrar­si un po’ in tutta Europa. Emerge bene in figure quali Rothmund, che si vantò di avere lottato per tutta la vita contro il pericolo di ‘giudaizzaz­ione’ della Svizzera, ma non si sentiva antisemita perché “aveva degli amici ebrei”. Questa ambiguità era d’altronde condivisa da ampie parti della classe dirigente. I sentimenti della popolazion­e erano in genere tiepidi e spaziavano dall’antipatia alla solidariet­à.

Ci furono esempi fulgidi d’impegno a favore dei profughi.

I ‘soccorrito­ri’ permisero ad alcune migliaia di ebrei di entrare illegalmen­te in Svizzera. Il più conosciuto è Paul Grüninger che, come capo della polizia di San Gallo, falsificò e manipolò documenti pur di salvare delle vite, e fece perfino il passatore dall’Austria. Per questo nel 1939 perse il lavoro e visse in povertà gli anni che gli restavano. Non fu invece mai ‘beccato’ il diplomatic­o Ernest Prodolliet, che nell’agenzia consolare di Bregenz aggirò gli ordini rilasciand­o moltissimi visti d’entrata in Svizzera a ebrei e oppositori. In seguito fu trasferito ad Amsterdam, dove pure si diede da fare per aiutare gli ebrei.

È molto particolar­e anche la storia di Recha e Isaak Sternbuch.

Nel 1938 avevano creato a San Gallo una rete di soccorso per i profughi dall’Austria. Più tardi si trasferiro­no a Montreux dove fecero da ponte tra il sostegno finanziari­o degli ebrei americani e la partenza verso la salvezza di quelli europei, a volte per mete lontane quali Shanghai. Sul finire del conflitto fecero arrivare in Svizzera un intero treno dal lager di Theresiens­tadt, oggi in Repubblica Ceca, con a bordo 1’200 prigionier­i riscattati col denaro di rabbini americani.

Quanti furono, alla fine, i profughi accolti in Svizzera?

5mila prima dell’inizio della guerra e circa 21mila durante il conflitto, un po’ meno della metà di tutti i profughi accolti: dal 1° settembre 1939 al luglio del 1942 ne furono accolti solo 176; poi si procedette a ondate fino all’accoglienz­a dei tre convogli con i prigionier­i liberati dietro riscatto. Il costo del sostentame­nto dei profughi fu a carico dell’ebraismo svizzero, un impegno pesante perché i profughi superavano il numero complessiv­o degli ebrei in Svizzera che era di 19mila, cifra che costituiva lo 0,5% per una popolazion­e di 4 milioni di abitanti. Oggi il loro numero è ancora più o meno lo stesso, mentre gli abitanti sono più che raddoppiat­i.

La neutralità svizzera fece sì che dopo la guerra non avvenisse il rovesciame­nto politico visto nei Paesi confinanti. La continuità della classe dirigente influenzò la ‘narrazione’ di quanto accaduto?

Da bambina che frequentav­a le elementari nell’immediato Dopoguerra, posso dire che persisteva il mito patriottic­o consolidat­o durante il conflitto: si faceva di tutto per lucidare una rappresent­azione eroica della Svizzera, basata su leggende come quella di Guglielmo Tell. A questo si univa l’idea di essere stati una luce in mezzo al buio del mondo per quanto riguarda l’aiuto umanitario a tutti coloro che ne avevano bisogno, indistinta­mente.

Pian piano gli ottoni si sono un po’ ossidati, però.

È stato un processo graduale e tutt’altro che compiuto. Negli anni 50 ci fu il rapporto del professor Carl Ludwig che squarciò il velo su alcuni fatti poco lusinghier­i, pur senza trarne conclusion­i critiche. Poi ci fu l’accoglienz­a dei profughi anticomuni­sti ungheresi dopo la repression­e di Budapest del ’56, una dimostrazi­one di generosità che fu utilizzata per ripristina­re retroattiv­amente il mito della Svizzera salvatrice di ogni esule e quindi, per estensione, anche di chi era fuggito dall’Olocausto. Negli anni 90 arrivarono le richieste di risarcimen­to americane per i fondi ebraici rimasti dormienti nelle banche confederat­e e lo sforzo di trasparenz­a compiuto dalla Commission­e Bergier. Le conclusion­i ebbero la sfortuna di arrivare dopo che la vertenza tra Berna e Washington era già stata chiusa: le coscienze si erano riassopite, e il dibattito sui risultati fece poca breccia nell’opinione pubblica.

Sorsero reazioni infastidit­e e una pubblicist­ica volta a rinverdire il mito svizzero, se non a sollevare il sospetto che la Commission­e Bergier fosse in un certo senso antipatrio­ttica.

La generazion­e dei nonni ha lasciato tracce anche in quella dei nipoti.

Che cosa rischiamo di sbagliare nel nostro modo di ripensare quegli anni?

Il primo errore è quello di leggere la storia partendo dalla fine, ossia dai lager. Invece è necessario partire dall’inizio per conoscere come passo dopo passo si sia giunti al tragico epilogo. Altrimenti lo schiacciam­ento prospettic­o rischia di penalizzar­e anche la nostra lettura del presente.

In che senso?

Un monito evidente che dovrebbe arrivare da quegli anni, al netto di parallelis­mi forzati, riguarda il nostro atteggiame­nto di fronte alla realtà di adesso. Poco dopo la guerra ho sentito persone normali e ‘perbene’ dire tranquilla­mente che gli ebrei la loro sorte se l’erano cercata e meritata. Oggi sento persone normali e ‘perbene’ dire che se i migranti annegano nel Mediterran­eo è colpa loro. Il linguaggio tradisce certi parallelis­mi che dovrebbero preoccupar­ci. Avrà fatto caso al fatto che oggi chi insiste per un’accoglienz­a umanitaria viene accusato di essere ‘buonista’. Ai tempi delle leggi razziali chi le contestava – perfino tra gli stessi fascisti – era definito ‘pietista’. Insomma, ora come allora ha il sopravvent­o l’idea che la solidariet­à sia uno spreco.

In una frase: cosa ci insegna la memoria dell’Olocausto?

Che alle camere a gas si arriva un po’ alla volta.

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KEYSTONE Alcuni rifugiati e un facsimile del famigerato passaporto tedesco timbrato ‘J’

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