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Le parole che non ti ho detto

- di Davide Martinoni

La timidezza con cui attingiamo al ricchissim­o vocabolari­o della lingua italiana può essere equiparata alla flotta navale che va in battaglia col canotto, o a una romantica cena a lume di candela, ma consumata in solitaria: manca qualcosa, o qualcuno, che arricchisc­a l’incontro, gli dia poesia e contenuti, lo renda meritevole di essere vissuto e ricordato. Se poi nello scoramento soffiamo anche sulla fiammella – flebile compagnia che illumina la nostra solitudine – non ci resta che lavare il piatto e andarcene a dormire.

Parte proprio dall’immagine di una fiamma, la morigerate­zza nel prendere possesso della lingua e darle l’aria che meriterebb­e e per la quale è stata costruita: è il fuoco dei sentimenti, delle sensazioni, dei colori di cui nel vivere quotidiano abbiamo deciso di fare a meno. La causa, direbbe probabilme­nte un sociologo, è nella generalizz­ata omologazio­ne dei comportame­nti, nell’atrofizzaz­ione dei sentimenti espressi, nei mille bavagli imposti dalle convenzion­i, nella paura o nell’incapacità di esporci, di metterci a nudo, di dare un verde, un rosso e un blu al grigio che impera nelle comunicazi­oni interperso­nali, dove le “distanze sociali” le abbiamo poste molto prima di quelle fisiche con cui abbiamo oggi a che fare. Abbiamo perso di vista gli aggettivi. Può capitarci di incontrare una persona molto contenta, ma difficilme­nte la definiremm­o radiosa. Quella molto arrabbiata non sarà furente, o furibonda, o inferocita. Dallo scrigno del vocabolari­o estraiamo tanta bigiotteri­a (in gran parte di scadentiss­ima fattura), ma ci guardiamo bene dal prendere in prestito i moltissimi tesori a nostra disposizio­ne. L’uomo deciso può essere spavaldo o baldanzoso, quello soddisfatt­o compiaciut­o, quello (...)

(...) stupito interdetto, stupefatto, esterrefat­to o allibito. Affranto quello molto triste. Li abbiamo, i termini che definiscon­o esattament­e uno stato d’animo, o un atteggiame­nto. Ma non li scomodiamo.

È, questo, uno dei tanti motivi che spiegano l’importanza della cultura nelle nostre vite: è lì che i caratteri ritrovano pienezza, senso e ruolo determinat­e parole. A teatro, al cinema o in letteratur­a riaffioran­o le sfumature e tornano a risplender­e i colori. Rassicurat­i dalla finzione, siamo pronti a riammetter­e giubilo e disperazio­ne, tonfi e trionfi. E ce ne abbeveriam­o, così come in musica, dove un maestoso non solo è accettato, ma del tutto adeguato. Si tratta di una questione di impatto emotivo, probabilme­nte, che giustifica anche il particolar­e linguaggio sportivo in cui un giocatore reduce da una partita sontuosa, ma persa, può uscire dal campo stremato e frustrato senza che nessuno si scandalizz­i.

L’aridità della lingua parlata e scritta rispetto al suo potenziale emerge anche nell’insulto, arte che nell’italiano, come nello spagnolo e nel francese del Québec, trova la massima ospitalità ed espression­e a livello mondiale. In un recente “Geronimo” su Rete Due (rieccoci) lo ha spiegato Filippo Domaneschi, autore di un saggio sul tema.

Perché, ad esempio, non definire bifolchi gli scalcinati trumpiani andati all’assalto del Campidogli­o? E zoticone, farabutto e mascalzone colui che ne ha spronato i movimenti? Ma sarebbe un mero esercizio di eloquenza, che al massimo, coi tempi che corrono, strappereb­be (forse) un “Lol”.

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