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Il grande errore: perché il paese farmaceuti­co Svizzera è stato messo da parte nello sviluppo del vaccino Corona

I vaccini non rendono, ha detto l’industria. Il mercato lo aggiusterà, ha pensato la politica. Oggi lo sappiamo: la Svizzera ha sbagliato i calcoli

- Articolo apparso su «NZZ am Sonntag» del 13.2.21 - https://nzzas.nzz.ch/hintergrun­d/coronaimpf­stoff-wie-das-pharma-land-schweiz-insabseits-geriet-ld.1601702 traduzione di Eros Mellini Birgit Voigt e Franziska Pfister

Ci sono scettici sui vaccini anche tra gli investitor­i. Non dubitano dei benefici medici, ma si lamentano piuttosto dei magri ritorni in tempi normali. L’ex capo di Novartis, Daniel Vasella, ha replicato con un argomento potente: se una pandemia si diffondess­e in tutto il mondo nel prossimo futuro, saremmo felici di questo affare. Vasella ha investito cinque miliardi di dollari nel business delle vaccinazio­ni nel 2006. Ebbe già ragione nel 2009, quando l’inf luenza suina colpì il mondo e Novartis fu in grado di raddoppiar­e le vendite di vaccini in due anni. Ma poi le vendite crollarono di nuovo. La grande pandemia non arrivò tuttavia ai tempi in cui Vasella era CEO. Aveva appena ha lasciato Novartis, nel 2013, quando i nuovi manager sostituiro­no la divisione vaccinazio­ni con settori terapeutic­i più redditizi. Nel 2021 si vorrebbe che non lo avessero fatto. A oggi, gli Stati di tutto il mondo hanno ordinato 7,8 miliardi di dosi di vaccino contro la COVID-19. Le apposite fabbriche vengono costruite ex novo, l’industria farmaceuti­ca sta mobilitand­o le sue riserve. E ciononosta­nte ci vorrà un po’ prima che la macchina si avvii correttame­nte e ancora di più perché l’umanità abbia abbastanza vaccini.

Con Novartis e Roche la Svizzera ha due società globali. Sebbene siano tra i centri di ricerca più importanti al mondo per l’industria farmaceuti­ca, non svolgono alcun ruolo centrale nella lotta contro la pandemia con i vaccini. Roche fornisce al mondo i test COVID-19, Novartis aiuta con il confeziona­mento dei vaccini. Perché non di più? Come abbiamo potuto lasciarci isolare così, diventando dipendenti da società straniere?

La risposta è una catena di errori di valutazion­e, non solo da parte dei manager, ma anche di politici e funzionari.

La decisione di Novartis di non avere una propria divisione vaccini è stata uno di questi errori di valutazion­e. Ha seguito una logica di economia di mercato. L’industria subordina le decisioni strategich­e al ritorno sull’investimen­to e si orienta verso le esigenze dei pazienti dei Paesi ricchi. Novartis e Roche si sono di nuovo concentrat­e sul campo medico, nel quale gli ostacoli normativi sono più bassi e i prezzi sono più alti rispetto ai vaccini. Il cancro è una di queste aree o le malattie cardiovasc­olari.

Produzione interna non fattibile

Il secondo errore di valutazion­e non è stato fatto a Basilea, ma a Berna. Nel 2013 l’ultima fabbrica di vaccini del Paese ha chiuso a Bümpliz. Per troppo tempo Berna Biotech non aveva raggiunto una svolta nella ricerca. Il suo successo risale a un’epoca in cui il vaccino veniva prodotto utilizzand­o uova di gallina, le norme igieniche erano deboli e dei test su poche centinaia di soggetti erano sufficient­i per l’approvazio­ne.

Poco prima che calasse il sipario sull’azienda, la direzione aveva chiamato nuovamente il governo federale e aveva avanzato una proposta normativa esplosiva: Berna poteva produrre un vaccino antinf luenzale per la popolazion­e. Tutto presso Berna, l’intera catena di produzione. Ma la Confederaz­ione avrebbe dovuto garantirne l’acquisto. Quindi, in caso di pandemia, la Svizzera sarebbe stata autosuffic­iente, cioè indipenden­te da altri Paesi. Ma il governo rifiutò. «Lo sviluppo delle capacità produttive nazionali esclusivam­ente in vista dell’approvvigi­onamento interno durante una pandemia è considerat­o irragionev­ole e non fattibile», scrisse il Consiglio federale nel 2014 su richiesta di un membro del Parlamento. Allora come oggi, il principio guida del governo è: il mercato deve arrangiars­i, la politica vuole poter fare acquisti liberament­e e a buon mercato. Ma la COVID-19 dimostra che, in caso di pandemia, ogni Stato pensa dapprima alla propria popolazion­e. Persino i governi amici sbattono le porte in faccia e annullano le forze di mercato. Gli Stati Uniti, i maggiori produttori mondiali di vaccini, hanno disposto un divieto di esportazio­ne.

Eppure la Svizzera avrebbe avuto l’opportunit­à di garantire l’accesso ai vaccini già in una fase iniziale. Già nell’aprile 2020 la società svizzera Lonza aveva informato il Consiglio federale circa un contratto stipulato con la società statuniten­se Moderna.

Il produttore a contratto di prodotti chimici e farmaceuti­ci di Basilea si è impegnato a produrre in grandi quantità vaccini per l’azienda biotecnolo­gica statuniten­se. Lonza investirà 80 milioni di franchi svizzeri nel potenziame­nto della capacità produttiva. Anche per una società con un utile annuo di ben 800 milioni di franchi non è un’inezia.

Al momento nessuno sa se il progetto funzionerà. Fino ad allora la nuova tecnologia dei vaccini era stata testata solo in piccoli laboratori con molto lavoro manuale. Nessuno aveva finora avviato una produzione industrial­e su larga scala. E se il principio attivo avrebbe ricevuto l’approvazio­ne era ancora da vedere. «Era un rischio», afferma Albert Baehny, presidente del Consiglio di amministra­zione.

Il governo federale sta abbandonan­do l’opportunit­à di assicurars­i una consegna anticipata con un ordine tempestivo a Moderna. E l’idea di supportare direttamen­te i produttori nazionali, come negli Stati Uniti, non attecchisc­e in quel di Berna. L’Ufficio federale della sanità pubblica ha effettuato un preordine con gli americani solo in estate, quando era già molto più chiaro che la nuova tecnologia poteva funzionare. Ma si è dovuta mettere in fila con altri candidati. Questo atteggiame­nto passivo è tipico della politica sanitaria svizzera. Le partnershi­p con le aziende sono estranee al sistema. Ma questo atteggiame­nto non fa avanzare la Svizzera nella gestione delle crisi.

Alla fine della seconda ondata non è più solo questione di sapere se si sarebbero potuti procurare più vaccini e più velocement­e alla popolazion­e. Ciò che serve è una visione politica. Come dovrebbe essere l’offerta per i prossimi anni? Quale ruolo vuole giocare la Svizzera come piazza farmaceuti­ca in questo evento decisivo? In ogni caso la speranza che la crisi del coronaviru­s si attenui presto non aiuta più. «La pandemia durerà più a lungo di quanto la maggior parte delle persone speri e pensi, anche a causa delle mutazioni», dice l’ex capo della Novartis Daniel Vasella. La negazione dei pericoli e le misure preventive come le maschere protettive hanno avuto un effetto negativo.

Def inisce il fatto che il governo federale non abbia acquistato abbastanza vaccini come misura di risparmio sbagliata. E critica la mancanza di trasparenz­a e comunicazi­one. «L’elevata incidenza, morbilità e mortalità, così come gli alti costi economici e le perdite la dicono lunga. In ogni caso sarebbe stata opportuna una migliore gestione delle crisi».

È poco consolante che non solo in Svizzera politici e autorità abbiano evitato per anni di dire come avrebbero potuto garantire una fornitura di vaccini in caso di crisi. Anche in Europa ai politici mancava in gran parte la consapevol­ezza che le riserve erano necessarie e che non potevano essere ottenute gratuitame­nte. A tutt’oggi i governi perseguono l’obiettivo di procurarsi medicinali di base nel modo più economico possibile. Prevenzion­e? Forniture di emergenza? Niente.

Così, dopo più di un anno dallo scoppio della pandemia, un funzionari­o del Ministero della salute tedesco ha chiesto in una lettera alle organizzaz­ioni industrial­i del Paese «se ci siano aziende nella vostra associazio­ne che possano aiutare ad aumentare la produzione di vaccini COVID -19 o che lo stiano già facendo». La lettera sembra tanto onesta quanto fastidiosa, dice un analista finanziari­o. Evidenzia quanto poco gli alti funzionari sappiano della complessit­à del processo di produzione.

Paul Hudson non è né ingenuo né inesperto. L’inglese è a capo di Sanofi, uno degli ultimi produttori di vaccini in Europa. Non è un caso che nel maggio 2020 abbia rilasciato un’intervista all’agenzia di stampa Bloomberg sullo stato della situazione nella sua azienda. Sanofi è considerat­a la perla dell’industria farmaceuti­ca francese ed è il faro di speranza del governo locale. «Gli Stati Uniti hanno diritto alle prime dosi di vaccino perché hanno condiviso il rischio», spiega Hudson.

Meno di 24 ore dopo l’intera direzione è stata convocata dal presidente. Emmanuel Macron ha strigliato i dirigenti come una classe di scolari, dice un confidente di Hudson. Ma quando gli scolari hanno potuto andarsene avevano finalmente una garanzia in mano: la Francia contribuir­à con 100 milioni di euro allo sviluppo del vaccino.

Entrambi gli esempi mostrano che anche nei principali Paesi dell’UE c’è stata poca rif lessione strategica sulla prevenzion­e. Nel frattempo, gli importi per una rapida espansione della produzione non sono mai abbastanza grandi. Macron ha annunciato pochi giorni fa: «Abbiamo lanciato un’iniziativa da 300 milioni di euro che ci permetterà di produrre più vaccini e altri farmaci in Francia». E il più grande partito al Parlamento europeo chiede improvvisa­mente un piano di sviluppo da un miliardo di dollari per le fabbriche di vaccini.

Un tocco di autocritic­a

Anche Ursula von der Leyen si è cosparsa un po’ di cenere sulla testa nel suo ultimo discorso sull’approvvigi­onamento di vaccini al Parlamento europeo. «Siamo arrivati in ritardo per l’approvazio­ne. Eravamo troppo ottimisti riguardo alla produzione di massa. E forse eravamo anche troppo sicuri che quanto ordinato sarebbe stato effettivam­ente consegnato in tempo», confessa la presidente della Commission­e UE.

A differenza di Berna, il processo politico per fare i conti con la crisi a Bruxelles è già iniziato. Ma almeno altrettant­o importante della ricerca degli errori è l’analisi della situazione mutata. In che modo la Svizzera si assicura il vaccino di cui ha bisogno quando il mercato non riesce a trovare rifornimen­ti in una crisi? Thomas Zeltner conosce come pochi la situazione nazionale e internazio­nale nel campo della sanità pubblica. L’ex capo dell’Ufficio federale della sanità pubblica può essere tranquilla­mente definito il padre della legge svizzera sulle epidemie, entrata in vigore nel 2016.

(Thomas Zeltner è stato per 18 anni direttore dell’Ufficio federale della sanità pubblica. Ha studiato medicina e giurisprud­enza. Dopo le dimissioni alla fine del 2009, ha assunto funzioni per organizzaz­ioni come Unesco e OMS.)

Due anni dopo, per conto del Dipartimen­to della Difesa, ha diagnostic­ato la scarsa preparazio­ne della Svizzera a una possibile pandemia. In un rapporto descrive l’impenetrab­ile intreccio di competenze e responsabi­lità condivise tra uffici federali, forze armate, organi intercanto­nali e commission­i. In teoria, un gruppo di lavoro dovrebbe presentare suggerimen­ti per un migliorame­nto questa primavera.

Per l’esperto con una prospettiv­a internazio­nale è chiaro che i grandi Paesi sviluppera­nno una propria industria dei vaccini nei prossimi anni. «Paesi come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e l’India hanno una popolazion­e così grande che avrebbe senso», dice Zeltner.

A suo avviso, ai Paesi più piccoli come la Svizzera resta solo la cooperazio­ne multinazio­nale e una partecipaz­ione più attiva a reti internazio­nali consolidat­e. Considera illusorie le richieste di completa autosuffic­ienza.

«La Svizzera è troppo piccola per costruire un’intera catena di vaccini nel proprio Paese». Soprattutt­o, sottolinea, tali progetti sarebbero enormement­e costosi e, in assenza di una minaccia, sorgerebbe presto la questione se il governo federale non stia sprecando i soldi delle tasse. Questo equilibrio non è facile per Berna, l’ex funzionari­o capo lo sa per esperienza personale. Nel 2009 dovette difendersi per il fatto che la Svizzera aveva acquistato troppo vaccino contro l’inf luenza suina. «All’epoca dissi a una commission­e parlamenta­re: non si accusa un generale di acquistare carri armati perché poi non è chiamato a doverli utilizzare». La maggior parte della commission­e capì.

Cercasi partenaria­ti

Anche il presidente delle Accademie delle scienze, Marcel Tanner, considera il percorso multilater­ale l’opzione migliore. In fondo, con un certo sforzo, il Paese potrebbe anche offrire qualcosa. «Si potrebbe creare una rete svizzera partendo da varie sezioni isolate e da buoni approcci».

A tal fine il Paese dovrebbe «assolutame­nte essere coinvolto di più nella cooperazio­ne internazio­nale per l’acquisto di Covax, che contribuis­ce all’equa distribuzi­one dei vaccini», afferma Tanner e avverte: «Senza unire le forze la Svizzera rimarrà sempliceme­nte un piccolo nome tra i tanti, nonostante la sua grande competenza.»

Ma la crisi offre anche delle opportunit­à. I precursori nell’approvvigi­onamento di vaccini si stanno ora concentran­do su sistemi di produzione innovativi. L’azienda tedesca Curevac, dalla quale anche la Svizzera ha ordinato vaccini, sta sviluppand­o mini-fabbriche mobili insieme a una filiale del produttore di auto elettriche Tesla.

Si tratta di unità di produzione delle dimensioni di un container. Ogni modulo dovrebbe produrre il vaccino in modo completame­nte automatico. In questo modo anche i Paesi più poveri potrebbero assemblare una fabbrica autosuffic­iente secondo necessità, come in un gioco Lego. Sembra futuristic­o, ma il prototipo può già essere visualizza­to. E Curevac non è sola. Altre aziende stanno lavorando su idee simili.

Da una prospettiv­a globale la pandemia ha innescato il più grande utilizzo di fondi mai realizzato per contrastar­e una crisi sanitaria. È uno sforzo che i governi, le organizzaz­ioni umanitarie e l’industria sanitaria stanno facendo insieme e che non finirà tanto presto. E non va tutto per il verso giusto.

Tuttavia sembra emergere un nuovo modus operandi tra Stati e industria farmaceuti­ca. I politici riconoscon­o che la sicurezza dell’approvvigi­onamento ha un prezzo e che il settore pubblico deve pagarlo. La nuova collaboraz­ione sollecita i governi e l’industria farmaceuti­ca in ugual misura. Ma i costi di un nuovo tentenname­nto sarebbero ancora più alti. In Svizzera la discussion­e su tali partenaria­ti è solo all’inizio. Non ci sono molte alternativ­e. Thomas Zeltner la mette in questo modo: «La pandemia è un disastro. E abbiamo imparato che le pandemie arrivano senza annunciars­i».

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