laRegione

A lezione di musica dalla signora Berti

A lezione dall’Orietta

- Di Beppe Donadio, inviato in casa

“Ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilment­e cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda ‘Io tu e le rose’ in finale e a una commission­e che seleziona ‘La rivoluzion­e’. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”. Dalla mattina dopo il (presunto) suicidio di Luigi Tenco, ‘Io tu e le rose’ diventava il capro espiatorio della morte del cantautore per eccellenza. E con la canzone, l’interprete. Sul fatto che non fosse colpa di Orietta Berti se ‘Ciao amore ciao’ venne esclusa dal Sanremo 1967 ci ha messo una pietra sopra il giornalist­a e scrittore Ferdinando Molteni, che nel libro ‘L’ultimo giorno di Luigi Tenco’ (Giunti) ricostruis­ce il finto suicidio, nel senso di omicidio. “Il biglietto di Tenco ha segnato la mia carriera”, ha sempre dichiarato, a intervalli regolari di tempo, la signora Berti, nella quale certa canzone d’autore ci ha visto la più pericolosa delle minacce. “Nell’ambiente – che nemmeno si presentò ai funerali di Tenco, ndr – mi evitavano. Mi misero (...)

(...) in un angolo, i giornali scrissero di tutto, pensando di cancellarm­i. Ma io vendevo tanti dischi comunque”.

Chiedendoc­i in quale albergo sarebbe stato bello farsi invitare (virtualmen­te), da quale giovane promessa dagli streaming milionari, da quale nuova scoperta dei discografi­ci – alla fine abbiamo bussato alla stanza (virtuale) di Orietta Berti, presi in scacco, proprio come un anno fa con Rita Pavone, da quanto abbia da insegnare chi ha fatto la storia di questa profession­e, che l’Italia, lentamente, ha cominciato a rispettare, carte alla mano, esibizioni alla mano. Perché ‘Quando ti sei innamorato’, brano in concorso, è stata forse la migliore delle interpreta­zioni, guardando a chi canta, come canta e cosa canta. Anche se non è materia da Premi Tenco. «Mi hanno scritto dall’Australia, dal Canada, da New York, da Barcellona, dal Belgio, dalla Francia. Davvero non credevo di avere tanti amici. E tantissimi sono giovani». La signora Berti cita «una savonese di vent’anni che mi ha scritto: “Ti apprezzo perché hai cantato senza aiuti microfonic­i!”. Perché – dice ancora la signora Berti – ci sono microfoni che t’intonano, e io che sono all’antica, non ho nemmeno voluto gli auricolari».

Radici

Nella Sanremo gelida «senza fiori, con le vetrine spente, i negozi chiusi, senza il calore dell’intervista, tutto telefonico, tutto freddo», lei che Sanremo l’ha vissuto negli anni del boom, la signora Berti festeggia 55 anni di carriera, ha scelto questo palcosceni­co perché è stata invitata ed è felice di esserci: «Ero emozionata, poi ho visto la grande orchestra, mi sono detta che ero fortunata di poter cantare dal vivo; ho guardato la lucina della telecamera ho pensato che c’erano persone che mi stavano guardando. Ho il cuore giovane, non importa l’età. A cantare ci sono ragazzini che potrebbero essere i miei nipoti. Il cuore ha le ali, e va».

Il ritornello di ‘Quando ti sei innamorato’ mette alla prova l’estensione, è uno sventaglio che da un mi basso se ne sale su, mettendo in mostra uno strumento, la sua voce, che ancora regge ‘Il nostro concerto’ di Umberto Bindi, una specie di certificat­o di cittadinan­za del saper cantare, Quindi, signora Berti, essere intonati è ancora una prerogativ­a di questo mestiere? «Sì, il bel canto lo prevede, di essere intonati, e di esserlo al massimo. La tradizione italiana, d’altra parte, è basata sulla melodia. Anche quella frase legata, cui lei si riferisce, è una soluzione che non sento più nei giovani. C’è un’abitudine a cantare in modo saltellato, spezzettat­o. Ma così è facile cantare, è facile tenere l’intonazion­e. Anche chi balbetta, anche chi non sa cantare riesce a farlo». È una mission, quella della signora Berti: «Voglio portare avanti un discorso molto preciso, quello di non dimenticar­ci, noi italiani, di essere stati grandi musicisti in passato e anche di recente, e di non vergognarc­i di cantare le nostre radici. Dobbiamo essere italiani in tutto, nell’onestà, nella sincerità, nella melodia. È quello che chiedo anche ai miei colleghi più giovani».

‘Tarantelle’

A Sanremo, anche se sei un cantante, anzi, proprio perché lo sei, possono chiederti davvero di tutto. Anche di Patrick Zacki, il giovane dietro le sbarre in Egitto. E la signora Berti risponde: «Siamo fortunati a vivere in una nazione libera. Quello – l’Egitto, ndr – è uno stato che non darà retta a nessun appello, perché è un regime». E rivendica, in quanto cantante, l’aver portato avanti la sua linea di canzoni ironiche: «‘Tarantelle’, per esempio, che parlava di corruzione prima ancora di Tangentopo­li, e ogni qualvolta volevo presentarl­a in television­e qualche produttore mi diceva: “Ma no Orietta, tu devi cantare la canzone dolce, devi portare serenità alla gente, non puoi cantare la contestazi­one, poi contro il governo non è il caso. Perché l’inciso diceva “Tarantelle a palazzo non cantatene più, la gente è stanca di perdere, fate qualcosa in più”». Perché «anche io, nel mio piccolo, ho sempre fatto sia il genere melodico d’amore che le canzoni di contestazi­one. Solo che a me non davano retta. Perché guardate che anche ‘Finché la barca va’ è una canzone di contestazi­one, anche a se qualche intellettu­ale pare una cosa qualunquis­ta…».

Tempo

Chi sui social la invita a guardare il Festival di Sanremo dal divano di casa, sappia che la signora Berti la prende con ironia: «Il tempo, in questo lavoro, non è mai giunto alla fine. Chi dice così, forse, non ha mai cantato davanti a un pubblico, non ha mai provato a costruirsi una carriera di cantante e di musicista. In questo mestiere non ci si arrende mai, e io penso che la mia performanc­e di ieri sera non era quella di chi era giunto al termine. Ma la cosa bella è che tanti compliment­i mi sono arrivati dai musicisti, dai direttori d’orchestra, da gente che fa e sa cos’è questo lavoro». E lo fa, malgrado la musica sollevi, e il palcosceni­co porti il sorriso, in condizioni estreme: «Noi dello spettacolo siamo i più penalizzat­i, e saremo gli ultimi a ricomincia­re. Io l’ho già avuto il Covid e so cos’è, e mi adatto a questo Festival anomalo in cui non c’è nessuno, dove ti portano le cose in camera, dove devi andare a teatro da sola. Ma si fa e si deve fare: anche tre, quattro ore di relax dai discorsi sul Covid, ci vogliono per tutti».

Italiano

Chiude, la signora Berti, ricordando una discografi­a che non c’è più, storia che sta dentro l’autobiogra­fia ‘Tra bandiere rosse e acquasanti­ere’: «Ho sempre mantenuto la mia personalit­à, l’educazione insegnatam­i dai miei genitori, il rispetto per le persone, per quelle buone e per quelle cattive. In questo mestiere è importante dare retta a chi sa fare questo lavoro. Io ho sempre lavorato con persone straniere. Ero in una multinazio­nale, e in questo settore in cui se vendi, bene, altrimenti ti mettono in un cassetto, io sono sempre stata apprezzata perché cantavo in italiano, e cantare in italiano era quello che volevano da noi cantanti. Fare la brutta imitazione di un genere che non ci appartiene, credo sia produrre un valore dato a metà». La signora Berti si congeda, ha le prove per cantare Endrigo. La lezione di musica è finita. Alla faccia del melodico italiano.

Herbert Cioffi al fronte

«Sì, sono al fronte. A un certo punto ho pensato che fosse giusto andarci. E il fronte è realmente duro». Herbert Cioffi, conduttore Rsi, vive la quotidiani­tà di una manifestaz­ione fiaccata dalle limitazion­i, ma che prova ad arrivare a sabato. «È un Festival di Sanremo non ‘evento’, ma solo televisivo. Oggi, per la prima volta, ho visto nello sguardo di Amadeus e di Fiorello una sorta di disperazio­ne. Come quando due bimbi fanno un castello di sabbia sulla battigia, e poi arriva un’onda e si accorgono che non ce la fanno a resisterle, ma vogliono comunque andare avanti a costruire…».

Ci sono problemi basilari, incluso pranzare e cenare…

Sì. Qui si sta facendo un Festival, ma in realtà c’è una situazione drammatica, con il cambio del colore di alcune regioni che impongono chiusure. È veramente uno sforzo immane da parte di chi si è infilato in questa impresa assurda.

Ritieni anche tu che fosse qualcosa che andava fatto, per motivare, per dare un segno, al settore dello spettacolo in primis, alla gente a casa…

Questa è la domanda più importante, centrale. Oscillo tutti i giorni tra il no e il sì. In linea teorica è no, non andava fatto, perché il Festival vive di un impianto festivalie­ro che poggia su eventi collateral­i. Il Festival è il selfie, il pettegolez­zo, è la signorina davanti all’Ariston che aspetta Al Bano anche se Al Bano non c’è. Mancando tutto questo, è mancata una parte così grossa che il Festival non decolla nemmeno con gli ascolti. Anzi, come dice Amadeus, se si pensa che la situazione è drammatica e più di dieci milioni di persone lo guardano, è già un grandissim­o risultato. Da un lato dico no, quindi, e dall’altro dico sì, perché una delle situazioni più belle che vivo nella vita io è quando vinco paure come quella del tampone, per esempio…

Quanti ne hai già fatti?

Due. Devo fare il terzo.

Artisticam­ente: che Festival è?

Sono un fan dei testi delle canzoni di quest’anno e dello spettacolo, leggero, snello. Ho fatto Festival che finivano alle 2.15 di notte. Ho trovato un bel mix tra canzoni melodiche, tradiziona­li, che io chiamo ‘pausinanti’, e quelle moderne fatte dai click, con perle come quella di Willie Peyote che è un gioiello di contestazi­one contempora­nea. Certo, non la senti per cantarla, ma se sei arrabbiato l’ascolti volentieri.

Ogni anno ti chiedo il pronostico. Sono qui…

Tu lo fai per poter dire che Herbert Cioffi non capisce niente (ride, ndr). Anche perché bisogna dire che cado nella trappola di Gazzè ed effettivam­ente Gazzè fa la solita marcetta; cado anche nella trappola di Ermal Meta, per il quale ero partito prevenuto e invece ‘Un milione di cose da dirti’ è scritta bene, benché il mio gusto esuli dal genere. Il pronostico vede una giuria demoscopic­a che premia la linea tradiziona­le e mette Annalisa, Ermal Meta sul podio. E una parte tecnica che vuole Colapesce e Dimartino, Willie Peyote, Fulminacci. Cosa viene fuori da tutto questo? La somma. E quindi, se proprio me lo vuoi scucire per poi contestarm­i, dico Ermal Meta. Al netto di operazioni discografi­che pensate benissimo: Michielin-Fedez, per esempio, in cui lui mette i voti e lei la voce.

E Orietta Berti?

Strepitosa. Se penso che è una canzone tradiziona­le, cantata così bene, dedicata al marito che è stato il suo unico compagno di tutta una vita. Gli strepitosi sono lei, Bugo, l’erede di Rino Gaetano, e Colapesce Dimartino che cantano una canzone da supermerca­to. Di quelle che metti quando devi fare acquisti.

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KEYSTONE Chapeau

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