Tra le righe di Pacifico (e con parole sue)
Ermal Metal e i Nåziskin
All’alba del quarto giorno, superata la boa del giovedì delle cover d’autore con 95 artisti sul palco e il canzoniere italico aggiornato (e qua e là minato) nei suoi duetti, l’inviato a Sanremo, generalmente, se ne andava al mare. Molti dei giochi sono fatti, tira aria di vincitore, e dopo avere ascoltato 86 canzoni esclusi gli ospiti, Mina che canta la sigla della Tim e lo stacchetto d’ingresso che ricorda di depositare il pezzo per il giorno dopo, la mente cerca di tornare ai suoi meccanismi meno festivalieri, e cerca più umane divagazioni. Anche i cantanti cominciano a sbroccare: la signora Orietta Berti, di giovedì pomeriggio, mostra interesse per l’originalità della 19enne Madame (e fin qui tutto bene), ma confessa anche che le piacerebbe tanto poter duettare con “Ermal Metal e i Naziskin”. Tanto canta bene, la signora Berti – e tanto ha cantato bene anche vestita di rosa e paillettes, per la seconda uscita della sua ‘Quando ti sei innamorato’ – che le si perdonano pure la confusione hard rock e l’estremismo melodico di destra.
A farla in breve: abbiamo incontrato Pacifico, all’anagrafe Luigi (Gino) De Crescenzo. Perché i cantanti sono bravi, certo, ma ogni anno c’è qualcuno che gli scrive le canzoni. Sono quelli che appaiono di fianco al numero da digitare sullo smartphone, sotto il nome dell’interprete, seguito dal titolo. A volte sono in metà di mille (l’esperto di contabilità capirà perché), altre volte sono un paio, o da soli. Pacifico ha una carriera sua, e una come autore puro. Firma ‘Ti piaci così’ per Malika Ayane e ‘Bianca luce nera’, l’esperienza ultrasensoriale degli Extraliscio...
Facendo finta di non sapere nulla di te. Pacifico: aggettivo? Oceano? Cos’altro?
Un travestimento, in realtà. Ho scelto questo pseudonimo a un certo punto della vita in cui ne ho sentito il bisogno. Ricordo di essere stato indeciso tra Pacifico e Barabba, e credo di avere ancora Barabba in qualche account. Poi ho trovato che Pacifico è un nome d’arte che mi rispecchia, ecco il travestimento. Anche se poi sono come tante altre persone, apparentemente misurate, pacate, con dentro il tormento che attraversiamo tutti, che non è manifestato al di fuori.
Metto da parte per un attimo la tua carriera solista. Quali requisiti servono a un autore di canzoni? Empatia, immagino…
Sì, è una parte dell’ascolto. Devi avventurarti nell’altro, devi capirlo. Ovviamente ci sono suoi dati evidenti, l’età, la carriera, informazioni che sono pubbliche, e poi c’è la sensibilità di capire cosa l’artista ha voglia di dire in quel momento. Ma c’è una sottile differenza tra l’arrivare a fare questo, a fargli ritrovare in bocca le parole che sperava di dire, e insieme fare anche un lavoro in cui si senta la personalità dell’autore. Il fatto che tu non usi lui da ventriloquo o lui non usi te come tale, è un equilibrio molto delicato.
Pazienza?
Sì, ce ne vuole tantissima anche quando scrivi per te stesso, perché a volte il risultato non è immediato, ed è così con gli artisti. È interessante perché, coltivando parallelamente le due cose, conosco bene le dinamiche dell’artista, la presunzione necessaria, quel cercare di essere sicuro di superare con un salto dieci metri di baratro e poi, magari, schiantarsi nel mezzo. Ma senza quella presunzione, gli artisti non avrebbero mai nemmeno tentato il salto, restando, allo stesso modo, fragilissimi. Il diagramma è quello e ci vuole molta pazienza.
Mi sa che l’autore è anche psicologo...
Sì, ma senza la tecnica. Se psicologo significa mettere la propria sensibilità al servizio di quella dell’altro, di contenere i momenti distruttivi e di cercare, invece, di esortarlo nei momenti in cui i primi esiti s’intravvedono, allora sì, psicologo.
Torno sulla pazienza: ti chiedono ancora “Posso cambiare questa parola?”...
No, è molto cambiato il lavoro per me. Ora è diventato più vario. Ci sono ancora situazioni in cui scrivo con una certa libertà, come in questi giorni a Sanremo, in un paio di brani nei quali ho collaborato. Su quello degli Extraliscio ho scritto con più libertà. Molte altre volte, come con Malika, faccio un’attività di sostegno, sono io a dire “Possiamo cambiare?”, a segnalare, come un idraulico della canzone, quelle parole che secondo me non funzionano in questo e in quel punto, per rendere l’effetto finale più empatico. A volte devi lottare, e a volte hai ragione a lottare; altre volte l’artista s’impunta e magari ha ragione lui. Negli ultimi anni soprattutto, da questo punto di vista, ho imparato molto.
Ermal Meta, negli ultimi giorni, ha dichiarato: “Quando ero autore per altri interpreti mi faceva strano ascoltare le interviste di coloro per i quali scrivevo. Parlavano della canzone, ma di com’era nata non ne sapevano nulla”. La canzone, si dice, diventa di chi l’ascolta, ma soprattutto di chi la canta. Tu come la vivi?
Tendenzialmente bene, mi sono sistemato. Anche io ho avuto qualche patimento, soprattutto all’inizio, quando hai l’aspettativa un po’ infantile che tutti abbiamo, quella di essere riconosciuti. In certe situazioni non venivo citato, magari speravo nella dichiarazione pubblica dell’artista. Ora non ci faccio più caso. Mi è successo, invece, di patire un concetto espresso da Paolo Conte, che disse di avere smesso di scrivere brani per altri perché soffriva troppo dell’arrangiamento di certe canzoni. A volte, in effetti, ci sono brani la cui forza è attenuata dall’arrangiamento, ma in linea di massima, negli ultimi tempi, sento che il mio lavoro è utile e sufficientemente rispettato.
E a volte, quasi succede il contrario: “È uscito il nuovo di Malika, l’avrà sicuramente scritto Pacifico”…
E invece con lei il lavoro è cambiato. Con Malika ho iniziato che lei era un’esordiente e l’ho vista evolversi, diventando via via sempre più cantautrice. Nel disco che uscirà abbiamo lavorato tanto assieme, lei è venuta spesso qui da me a Parigi e io sono andato a Milano; abbiamo preso una stanza per qualche ora sul porto di Genova per scrivere, perché ci trovavamo entrambi in Liguria. Il mio è un sostegno, capisco quali sono le sue aspettative, vedo il suo desiderio di sfuggire all’implacabilità del vocabolario delle canzoni pop, che è, se vuoi, la sindrome del ‘due punti: morale in fondo’, di cui sono state scritte meravigliose pagine, ma che è cosa che lei soffre e non vuole più. Io sono il suo interlocutore, ci conosciamo bene, è un meccanismo facile da mettere in moto.
Il bravo autore si applica ai contesti più disparati...
C’è stato un periodo in cui lavoravo con Musica Nuda, Frankie HI-NRG e nel frattempo avevo scritto una cosa per Bocelli, ed è stato molto utile. Sono registri veramente diversi, hai l’occasione di fare un’esplorazione delle possibilità della lingua italiana. Se scrivi per un artista importante come Bocelli, per esempio, hai bisogno di grandi parole che non devono provocare ingombro, e invece con altri artisti è bello che le parole abbiano mille spigoli, che siano labirinti dentro i quali poterti buttare. Come la scrittura per gli Extraliscio, nata da una collaborazione con Mirco Mariani che ha suonato nei concerti del mio ultimo disco, un incontro costruttivo-distruttivo in cui lui è un generatore di musica e d’idee, oltre che un collezionista di strumenti incredibile. E poi il rapporto con Elisabetta Sgarbi (a capo de La Nave di Teseo e produttrice del ‘punk da balera’, ndr), che sentivo mi autorizzava a usare anche parole che, in genere, fatichi a inserire in un ambito più cantautorale. Poter parlare di desiderio in quel modo, totale, totalizzante, molto potente, irresistibile e dannoso, questo continuo inseguimento, mi ha consentito di metterci l’ossidiana, l’erba medicamentosa, l’ortica. Ho sentito che c’era una possibilità, e ho fatto tutto un altro tipo di esplorazione linguistica.
C’è una collaborazione alla quale sei particolarmente legato?
Sono in genere orgoglioso di tutte le mie collaborazioni. Malika, da così tanto tempo, Nannini, che ancora siamo lì che stiamo lavorando. Extraliscio per la grande libertà. Forse l’orgoglio è avere un bollettino firmato Pacifico-Morricone, che non ho incorniciato, non che ve ne sia bisogno, ma credo si astata l’ultima musica che diede a Bocelli per il suo disco di arie sacre. Ho avuto la fortuna di mettervi il testo, lui l’approvò. Anche lì, dovetti usare tutte le cautele per quella voce e anche per lo sguardo del maestro. Avere incrociato quella qualità inarrivabile di scrittura può essere sì, un motivo d’orgoglio.
In che modo la carriera dell’autore aiuta quella del solista, quale tu sei anche, e viceversa?
All’inizio, come credo funzioni sempre, arriva il tuo momento, azzecchi un pezzo. Scrissi ‘Sei nell’anima’ con Gianna Nannini, da lì è cominciato il mio lavoro. Andando avanti, devi superare i momenti di flessione, perché il problema è durare, essere utile nel tempo, stimolante per collaborare. E ho collaborato molto negli ultimi anni. Con Gianna il tavolo è sempre lì, pronto per scrivere insieme. Le collaborazioni, e Parigi, città molto dura, hanno asciugato molto il mio percorso di scrittura. Anche il lavoro con Francesco Motta, che ha un altro modo di asciugare le cose, che cerca una rudezza che apre a squarci improvvisi di tenerezza. Con tutti loro, seguendoli per trovare una cosa comune, è stato un corso di formazione e di aggiornamento costante.
Che hai portato nella ‘Settimana Pacifica’, il tuo salotto milanese con (tra) grandi artisti...
Ne parlavo con alcuni di essi proprio prima del lockdown, a fine dicembre. È stata un’esperienza bellissima. Tutte le scelte fatte all’ultimo, come l’aver voluto un cameriere storico della Milano del tempo, un vero maggiordomo che serviva in scena. Si è creato un clima pazzesco. Ma ci ho messo venti giorni a decidere di chiamare De Gregori: capivo che c’era stima e disponibilità, ho azzardato e in due secondi aveva il biglietto per venire, e non ha voluto un euro. È stato un ricostituente durante i mesi successivi. Si parla di rifarlo a Roma, e ancora a Milano, è comunque un pensiero bello che abbiamo messo via tutti. Sono felice sia potuto accadere.
Su ‘Bastasse il cielo’, il tuo ultimo album, ci sono pezzi di Dire Straits e Yellow Jackets…
È tutto merito di Alberto Fabris, che ha un libro segreto di musicisti pazzeschi ed è un fan e biografo, non su carta, dei Dire Straits, ma anche di Nick Drake. Alan Clark ha avvicinato lui, ho visto il curriculum spaventoso. Ora lavorano insieme. Persona disponibilissima, Alan Clark, come Mike Mainieri, che ha registrato negli Stati Uniti.
Dimenticavo, c’è Sanremo. Lo stai guardando?
Sì, da Parigi si vede. Mi sono piaciuti La Rappresentante di Lista, con cui ho collaborato di recente, e molto mi sono piaciuti Colapesce Dimartino, pezzo che resterà un po’ come ‘Vento d’estate’, canzoni con atmosfera molto mediterranea, con luce latina, pur parlando di depressione. È un Festival verso il quale, anche come critico da divano, ho molta indulgenza, perché per molti è davvero un conforto il fatto che quest’anno ci sia, e non sia uno di quegli appuntamenti sfumati. Segnali di vita continuano a esserci, anche a livello di tv generalista. Ovviamente lunghissimo…