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Un festival in aria Sarà il futuro?

- di Ugo Brusaporco

Questa Berlinale 71 che ha voluto svolgersi in doppia modalità, in questo primo marzo in streaming per pochi mercanti e giornalist­i, e a maggio come rassegna per il grande pubblico in sala, si è mostrata problemati­ca e capace di porre lo stesso problema ai venturi festival di cinema, pensiamo a Cannes e Locarno e pensiamo a una pandemia che non accenna a farsi da parte. Di più esiste il problema mondiale, di cui si è ampiamente discusso a Berlino, delle sale chiuse: non è un caso che tra gli ultimi titoli della bibbia ‘Variety’ in almeno otto si citava Netflix.

Che sia in Internet il futuro del cinema? Di un certo cinema sicurament­e; ovvero di quel cinema da tv che il pubblico da tv si aspetta, ma proprio Berlino, proprio le sue sezioni hanno mostrato che esiste un cinema resistente nella purezza del suo narrare e negli argomenti che affronta. Non dispiace dirlo ma fu proprio Cannes tre anni fa a chiudere le porte all’idea del cinema di Netflix, procurando­si le ire della critica codina che non vedeva l’ora di non pagare la camera e il sopravvive­re ai festival per godersi di un prodotto da vedersi in mutande a casa.

Ora questa Berlinale propone un tema interessan­te: quanti dei film proposti – quindici in competizio­ne, undici nella Berlinale Special, dodici in Encounters, e gli altri tra i corti, Panorama, Forum, Generation… – saranno visti? Quanti troveranno la strada della sala? Cinque? Dieci? No, troppi. Quanti la strada dei canali tv? Venti? Meno… E allora, se non li vede il pubblico ai festival, se ogni spettatore non diventa una postazione della memoria, cosa resta del Cinema? Netflix non è per tutti e allora bisogna cambiare maniera di fare film o si ha il coraggio di andare avanti? E come? Ecco a cosa servono i festival, che non sono bibliotech­e, che non sono palestre, ma che sono, ora, l’unica riserva di libertà espressiva, dove l’essere donna è consentito e celebrato, dove essere omosessual­e non è sopportato ma compreso e condiviso, dove essere migrante è patente di appartenen­za, dove avere la pelle diversa è lasciapass­are sicuro, dove avere idee nuove è Festival. Ecco allora che non possiamo dimenticar­e che in concorso è passato un film ‘Ghasideyeh gave sefid’ (Ballad of a White Cow) di Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam che ne è anche l’interprete. Un film che dice di una donna che combatte contro una giustizia che chiede il silenzio dopo l’errore di averle ucciso il marito innocente. Quanto è simile oggi questa donna a quante e a quanti combattono contro le ingiustizi­e della società, degli ospedali?

Il cinema racconta e non temiamo di ripeterci dicendo di ‘As I Want’ di Samaher Alqadi e del suo urlare il ruolo di donna nella nostra stupidamen­te maschilist­a società. Fra due giorni è l’8 marzo e questo film dovrebbe essere bandiera sventolata a tutti, ma perché deve restare in un cassetto, nonostante Berlino?

Questo è il senso mai capito di un festival.

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KEYSTONE I giurati (quelli che c’erano)

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