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Aristocraz­ia del violoncell­o

- Di Carlo Piccardi

Con Rocco Filippini scompare un rappresent­ante significat­ivo dei musicisti che si sono imposti all’attenzione a partire dai tardi anni 60. In Ticino ha rappresent­ato una figura di spicco della generazion­e che ha portato al profession­ismo personalit­à quali Chiara Banchini, Gioconda e Graziella Beroggi, Romana, Luciano e Ruggero Pezzani, Francesco Hoch, Fabio Schaub, a cui anch’io come musicologo (insieme con Lorenzo Bianconi) appartengo. La sua dipartita mi tocca quindi profondame­nte.

Come interprete possedeva la dote rara di sfruttare al massimo le risorse espressive di cui era dotato, e nello stesso tempo di saperle dominare in base alla distanza critica tracciata tra sé e l’opera. Il cipiglio e l’essenziali­tà della postura rivelavano immediatam­ente il coefficien­te di energia razionale dispiegata per incanalare lo slancio lirico che in lui non mancava mai, ma che si librava in forma governata dal rigore di un’interpreta­zione posta direttamen­te al servizio dell’opera. La facilità con cui egli si muoveva attraverso il repertorio di tutti i tempi, fino all’esecuzione di musica del 900 (comprese le composizio­ni a lui dedicate) non era un semplice indice di apertura, ma la manifestaz­ione di uno spirito di servizio reso a espression­i che meritavano di essere conosciute nella loro ricchezza e molteplici­tà.

Lo rivela soprattutt­o l’impegno dispiegato nella pratica cameristic­a, in quella gamma di relazioni complesse dove il fatto di gestire il rapporto di primus inter pares è un esercizio di disciplina straordina­ria nel giusto dosaggio dell’impegno individual­e. Rocco Filippini era un concertist­a abbondante­mente arricchito dall’esperienza del camerismo, dalle raffinatez­ze, dalle delicatezz­e del suono trattenuto, che allargavan­o il suo ventaglio interpreta­tivo in una profondità di campo non comune.

Era un modo di sottrarsi al passaggio scontato e quasi obbligato della spettacola­rità e del divismo, della ritualità e della ripetitivi­tà del concertism­o, di cui egli aveva chiara coscienza. In altre parole Filippini era dentro e fuori nel contempo rispetto all’opera da interpreta­re. L’aristocraz­ia del suo gesto, per cui – nella laudatio pronunciat­a a Cremona il 4 marzo 1998 in occasione del conferimen­to del premio conferitog­li dalla Fondazione del Centenario della Bsi – Paolo Petazzi parlò di “sprezzatur­a” (riandando alla stagione del “recitar cantando”) non aveva valore discrimina­nte, ma attestava un atteggiame­nto che metteva a frutto le acquisizio­ni culturali nel rapporto storico con l’opera, che non valgono solo per i musicologi ma anche per i “musici” pratici.

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