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Il boia non si ferma, ma 108 Paesi dicono no Il rapporto di Amnesty Internatio­nal: in Egitto triplicate le esecuzioni. La Cina non collabora.

- di Roberto Scarcella

Preoccupa la Cina, che non lascia trapelare dati ufficiali, spaventa la Corea del Nord, con i suoi silenzi oltre l’ultima delle cortine di ferro, e inquieta l’Egitto, con un’accelerata che fa porre più di un dubbio su chi lo governa e come. Ci sono Paesi in cui la pena di morte avanza, cresce, viene riscoperta, utilizzata in modo indiscrimi­nato per controllar­e ogni forma di dissenso. Ma c’è un dato che sembra incontrove­rtibile, nei numeri, nei fatti e nella parabola statistica. E che dà speranza.

Nel 1945, anno di nascita delle Nazioni Unite, i Paesi in cui non era prevista la pena di morte erano una manciata: otto. Trentadue anni più tardi, nel 1977, quando Amnesty Internatio­nal iniziò la sua campagna globale contro le esecuzioni capitali, i Paesi che avevano mandato definitiva­mente in pensione il boia erano appena sedici. Nel 2011 diventaron­o 97, oggi sono 108. A voler essere ottimisti, sono ancora di più, se consideria­mo anche quelle nazioni che non hanno ancora abolito ufficialme­nte la pena di morte, ma che da anni ormai non la applicano. Sommando tutti questi Paesi, ad oggi, arriviamo a 144. Questo e molto altro racconta il rapporto 2020 di Amnesty Internatio­nal, controfirm­ato dalla nuova segretaria generale, Agnès Callamard, insediatas­i meno di un mese fa. Francese, ex relatrice speciale dell’Onu per le uccisioni extragiudi­ziali, per il quale ha condotto indagini su questioni di grande rilievo internazio­nale, tra cui la morte del giornalist­a saudita Jamal Khashoggi, Callamard, ha diretto – tra le altre cose – il progetto sulla Libertà di espression­e globale alla Columbia University. Inizia i quattro anni a capo della Ong più grande del pianeta, presentand­o uno dei dossier in grado di illustrare come pochi il livello di umanità e compassion­e raggiunto (o negato) nel mondo: “Nonostante molti Paesi si ostinino con questa pratica, il 2020 è stato un anno positivo. Il Ciad ha abolito la pena di morte, e così il Colorado. Il Kazakistan ha preso impegni internazio­nali e formali e lo stesso percorso lo sta portando a termine Barbados. Il numero di esecuzioni continua a calare, portando il mondo sempre più vicino al giorno in cui consegnerà questa crudele, inumana e degradante punizione ai libri di storia”.

Gli Stati Uniti

Callamard ricorda anche che a sostenere la moratoria chiesta dall’Onu sulla pena di morte sono ben 123 Paesi, numeri impensabil­i appena dieci anni fa: “La pressione su chi si ostina a mantenere la pena capitale è sempre più forte. Ma abbiamo visto che serve. La Virginia è il primo Stato del Sud degli Stati Uniti a chiamarsi fuori. E anche se c’è molto lavoro da fare a livello federale, a Washington ci sono leggi sul tavolo che aspettano solo di essere firmate”. Il caso degli Stati Uniti resta sotto i riflettori, emblematic­o quanto schizofren­ico. La più grande democrazia del mondo, o almeno così è come gli americani amano definirsi, resta l’unico Paese del continente americano in cui proseguono le esecuzioni: 17 nel 2020, cinque in meno dell’anno precedente. Ma nonostante i passi avanti nei singoli Stati, sotto la presidenza Trump sono riprese le esecuzioni a livello federale: in appena cinque e mesi e mezzo, dieci sono state le condanne a morte che hanno riportato indietro l’orologio della storia.

Ci sono però anche segnali positivi: sono 18 le condanne complessiv­e inflitte dai giudici statuniten­si contro le 35 del 2019, quasi la metà. L’unico altro Paese americano a comminare una condanna a morte nell’anno appena concluso è stata la piccola Repubblica caraibica di Trinidad e Tobago.

I silenzi dell’Asia

A preoccupar­e Amnesty Internatio­nal è l’Asia, con i grandi buchi neri rappresent­ati da Cina, Corea del Nord, Siria e Vietnam che si rifiutano di collaborar­e negando la divulgazio­ne di ogni cifra a riguardo. Al netto di questi numeri che restano segreti, Amnesty ha registrato 483 esecuzioni nel mondo, il 26% in meno del 2019, ben il 70% in meno dell’annus horribilis 2015. Proprio l’Asia ha dato una mano in questo senso, visto che Paesi che avevano fatto ricorso al boia appena due anni fa si sono – almeno per ora – ravveduti: tra questi il Giappone, il Pakistan, Singapore e il Bahrain. La stessa cosa è accaduta in Sudan, in Africa, e nella contestati­ssima Bielorussi­a in Europa. Un trend simile, al ribasso, è stato registrato dalle condanne a morte: 1’477 (36% sul 2019) suddivise su 54 Paesi, con numeri in diminuzion­e praticamen­te ovunque con due eccezioni: l’Indonesia, dove ci sono state 117 sentenze di morte (+46 per cento sul 2019) e lo Zambia (119, +9 per cento).

Arma di repression­e politica

Amnesty segnala inoltre che l’88 per cento delle esecuzioni ha avuto luogo in soli 4 Paesi: Iran, Iraq, Egitto e Arabia Saudita. Tuttavia in Arabia Saudita e Iraq il crollo registrato fa ben sperare per il futuro (rispettiva­mente -85% e -50%), mentre a preoccupar­e, non solo per i numeri legati alla pena di morte è l’Egitto, che ha addirittur­a triplicato le esecuzioni. Quelle certificat­e sono 107: almeno 23 di queste sono legate a reati politici, confession­i estorte con torture e altri metodi violenti. Nei soli mesi di ottobre e novembre lo Stato egiziano ha ucciso 57 persone (tra cui 4 donne). La pena di morte è usata largamente come metodo di soppressio­ne per reati politici anche in Iran, ma mai negli ultimi anni si era vista una sproporzio­ne anno su anno come quella avvenuta in Egitto. Un’escalation che, se confermata, potrebbe portarlo nel giro di un paio d’anni a essere il Paese con il più alto numero di esecuzioni al mondo, almeno tra quelli di cui si conoscono i dati.

In Asia, oltre a nascondere il numero di morti e condanne (nel mondo le persone in attesa di esecuzione sono almeno 28’567), si conducono uomini e donne al patibolo anche per reati che nulla hanno a che fare con gli omicidi volontari. In Pakistan si uccidono i condannati per blasfemia, in Cina e Vietnam quelli per corruzione, in una lunga lista di Paesi (che include Laos, Indonesia, Sri Lanka e Thailandia) si rischia il patibolo se si è invischiat­i in affari di droga.

Quella frase di Dostoevski­j

Alle Maldive cinque minorenni all’epoca dei fatti sono stati condannati a morte, ricordando­ci quanto può essere brutale uno Stato che tratta la vita delle persone con la stessa freddezza di un qualsiasi altro disturbo burocratic­o. Lo sapeva bene, in tempi in cui la pena di morte era molto più diffusa e praticata, Fëdor Dostoevski­j, che ne “L’Idiota” scriveva così: “L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Si sono dati casi in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero, supplicand­o, ha ottenuto grazia dagli assalitori. Ma con la legalità, tutta quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte e con cui è dieci volte più facile morire, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata”.

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