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Il calcio dei leoni e degli Agnelli

- Di Beppe Donadio

“È stato giusto giocare, è stato giusto vincere” fu una frase che a qualcuno cambiò la prospettiv­a del calcio. Era il 26 maggio del 1985. Ma non è da qui che vogliamo cominciare. Cominciamo da Salvatore, emigrato in Scozia dal Sud Italia prima di trasferirs­i ad Highbury, quartiere di Londra. Orgogliosa­mente meridional­e, orgogliosa­mente scozzese, spietato nel suo misto di lingue, concluse i suoi giorni da ex imbianchin­o a due passi dallo stadio dell’Arsenal, nella tipica casetta a schiera su due piani, con la moquette blu oltremare, la tappezzeri­a beige a rombi e un profumo di curry che entrava e usciva dalle finestre. “Ho imbiancato tutta un’ala del f ***** Buckingham Palace, you know? Sorry, è meglio che stia zitto”. Lì, in quella casa di Highbury, una sera del Duemila e qualcosa, Salvatore tirò fuori da una scatola un vecchio ritaglio di giornale: ‘I leoni di Highbury’, c’era scritto. “Ho fatto una copia per te. Io quel giorno c’ero”. Quel giorno era il 14 novembre 1934 e la nazionale italiana fresca vincitrice della Coppa Rimet aveva accettato, previo ok del Duce, l’invito della nazionale dei Tre leoni, gli inglesi autoprocla­matisi ‘Inventori del calcio’ che ai Mondiali, per superiorit­à di razza (calcistica) nemmeno ci avevano mai messo piede. “Erano sicuri che ci avrebbero fatti a pezzi”, ricordava Salvatore. E invece, nel vecchio Arsenal Stadium, undici volonteros­i del pallone diedero del filo da torcere agli intoccabil­i del football: Inghilterr­a-Italia 3-2, o anche ‘La Battaglia di Highbury’. Per Il Littoriale, più tardi Corriere dello Sport, la “vittoriosa sconfitta”. Mercoledì 21 aprile 2021. Per 48 ore, il tempo di quelle idee che durano due giorni (tipo “da domani sono a dieta”), la Superlega, il sogno dei nuovi intoccabil­i del football – quelli che “se mi picchi lo dico a mio zio che è il padrone del condominio” e “invece io lo dico a mio nonno che è il padrone di tutto l’universo” – è svanito. Il campionato di calcio dei ricchi tanto voluto da Andrea Agnelli – presidente della Juventus che quest’anno ha perso in casa col Benevento – e da Florentino Perez – presidente del Real Madrid che quest’anno è stato eliminato dalla Coppa di Spagna dall’Alcoyano, squadra di serie C – è naufragato prima del fischio d’inizio. Il calcio è salvo, si dice. Grazie anche ai tifosi, che ai sogni di gloria – forse per timore di sborsare di tasca propria, forse per quella sportività che sugli spalti, almeno quelli inglesi, esiste ancora – hanno anteposto la dignità. Il calcio è salvo e potremo ancora provare l’unica gioia rimasta a noi che di tattica non capiamo nulla, e cioè vedere Davide che batte Golia. E quindi le Coree che eliminano l’Italia, il Senegal che batte la Francia Campione del mondo, il Camerun che batte l’Argentina Campione del mondo, la Grecia che batte il Portogallo quasi Campione d’Europa, la Svizzera che quasi batte l’Argentina e tutto l’imprevedib­ile per il quale ha senso vivere. Nel marzo del 1983 Andrea Agnelli aveva 8 anni, non può ricordarsi di quando la squadra di cui oggi è presidente sbancò il Villa Park. Un’italiana che vinceva in Inghilterr­a: roba da Leoni di Highbury.

Ma il calcio, per noi che di tattica non capiamo nulla, era già morto quando “simulazion­e” era diventato “andare a cercarsi il fallo” e altre moderne manipolazi­oni lessicali. Il calcio, in verità, per qualcuno è morto il 25 maggio del 1985 a Bruxelles, 39 vittime e un rigore inesistent­e. Il giorno dopo chiesero a Gianni Agnelli se non sarebbe stato il caso di rigiocarla quella coppa che ai tifosi juventini non sarebbe mai interessat­a. “È stato giusto giocare, è stato giusto vincere”, rispose l’Avvocato, alla faccia della sportività. Agnelli, il cognome è quello. Un senso ci dev’essere.

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