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Il Ramadan pandemico e i problemi dell’Islam

Mese sacro su Zoom. ‘Mancano moschee e imam’

- L.e.

Il 13 aprile è iniziato il mese di Ramadan – il nono del calendario islamico – che si concluderà il 12 maggio. Si tratta del secondo Ramadan ‘pandemico’, e quindi anche per quest’anno sarà inevitabil­mente negata alla comunità musulmana gran parte della socializza­zione in un periodo che non è solo digiuno, ma anche condivisio­ne della preghiera e del desco. Di quel momento «per ricordarci dei poveri, dei bisognosi, per metterci nei loro panni e vivere appieno le virtù del rispetto e della fratellanz­a» ci parla Hassan El Araby, cofondator­e della biblioteca islamica di Chiasso, uno dei sette centri della comunità musulmana presenti in Ticino (gli altri sono distribuit­i tra

Lugano, Giubiasco e Mezzovico). Quello che ne emerge è il breve ritratto di una realtà che deve ancora affrontare numerosi ostacoli pratici e culturali.

In un Ticino e una Svizzera sempre più secolarizz­ati, la comunità musulmana rispetta ancora il Ramadan? Oppure si tratta di una ricorrenza ormai più culturale che religiosa?

Non tutti i musulmani in Ticino sono praticanti, certo, ma il Ramadan risveglia gli animi ed entra in qualche modo in tutte le case, un po’ come il Natale per i cristiani: è il momento per riscoprire quei valori di fratellanz­a alla base della fede.

Così, ad esempio, sono molto sentite le due ricorrenze principali dell’anno, la Festa del sacrificio – che quest’anno cade il 20 luglio – e l’interruzio­ne finale del digiuno, la festa del Fitr.

Feste che naturalmen­te non potrete festeggiar­e in grande compagnia. Quali soluzioni avete trovato?

Naturalmen­te si tratta di un grande limite, anche perché per noi l’elemento della compagnia e della condivisio­ne è fondamenta­le non solo durante il Ramadan, ma anche – ad esempio – in occasione di ciascuna delle cinque preghiere giornalier­e. Quest’anno cerchiamo di rimanere in contatto organizzan­do momenti di scambio in remoto tramite Zoom e Facebook. Le difficoltà legate al Covid d’altronde sono comuni a tutti. Anche la separazion­e dalle famiglie d’origine riguarda ogni immigrato, non certo solo quelli musulmani. Al di là delle difficoltà, l’epidemia può comunque fungere da ulteriore stimolo a recuperare certi valori quali la condivisio­ne, il perdono, l’umiltà. Ad ogni modo di difficoltà ne abbiamo sempre avute, a prescinder­e dal virus.

In che senso?

Anzitutto soffriamo di una cronica carenza di imam, perché in Svizzera ottenere un permesso per loro è molto difficile, per non dire impossibil­e. E poi non disponiamo di strutture adeguate: per i cristiani c’è una chiesa ogni cento abitanti circa, per i circa 6mila musulmani in Ticino neppure una moschea.

La paura è che una moschea diventi avamposto per l’Islam radicale.

Ma cosa significa Islam radicale? L’Islam è pace e associarlo al terrorismo è profondame­nte sbagliato. Si tratta di pregiudizi che si perpetuano da decenni, anche perché i mass media parlano d’Islam solo quando capitano attacchi terroristi­ci, e una certa politica se ne approfitta. Ma la nostra religione – e il Ramadan lo simboleggi­a bene – è apertura, vita per tutta la comunità. I nostri centri servono a permettere la pratica religiosa e a fornire supporto a chi ne ha bisogno, come è capitato molte volte in questi mesi di difficoltà psicologic­he e di separazion­e dalle famiglie. Vogliamo solo il permesso di vivere la nostra fede in tranquilli­tà e serenità, come sanno bene moltissimi ticinesi che convivono con noi e ci vogliono bene.

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TI-PRESS Intervista al cofondator­e della biblioteca islamica di Chiasso Hassan el Araby

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