La Svizzera di ieri avrebbe reagito come quella di oggi?
Il nostro Paese è stato a lungo considerato un modello di organizzazione, previdenza, sicurezza, nel quale tutto funzionava davvero come il proverbiale «orologio svizzero». Quel tempo è oramai lontano. È la dura e triste lezione di questi mesi
Dov’è finita la Svizzera che, durante la Guerra fredda, era guardata come un modello di organizzazione nel proteggere la sua popolazione? I rifugi in cemento armato sotto ogni casa non necessariamente ci sarebbero bastati in caso di conf litto nucleare generale, ma costituivano di per sé un segnale forte e chiaro della fiera determinazione con cui i discendenti di Tell guardavano alle incertezze del futuro. Lo testimoniava l’ammirazione con cui molti ci osservavano da fuori e che nemmeno l’ironia sull’orologio a cucù o altre amenità rossocrociate riuscivano a nascondere. Avevamo ospedali di emergenza con centinaia di posti letto sotto le Alpi, grandi stock di riserve alimentari, una pianificazione sistematica di come reagire ad ogni pericolo incombente. Ci esercitavamo periodicamente e tutti (o quasi) dovevano fare la loro parte: la Confederazione, i Cantoni, i Comuni e soprattutto i cittadini.
Dove è finito tutto questo? Guardandosi intorno oggi, mentre arranchiamo nel gruppo di coda del plotone europeo per procurarci vaccini sufficienti a proteggerci dalla pandemia e coloro che dovrebbero guidare il Paese sono impegnati in primis nell’evitare decisioni troppo risolute, che attirerebbero le temutissime critiche, l’impressione è che siamo finiti su un altro pianeta. È vero che i tempi cambiano, che le carte si rimescolano, che non ci sono soluzioni facili a portata di mano. Ma è proprio in questi frangenti che, da sempre, emergono le persone, le idee e le forze migliori. Però, perché questo avvenga, la prima condizione è di non averne paura. E di avere un solido ancoraggio in una cultura politica dalle radici profonde e collaudate. Che oggi mancano vistosamente, dopo che per decenni si è fatto di tutto per indebolirle, nel nome dell’antisovranismo, dell’anti-chiusura, dell’ansia di rimanere esclusi da un’Europa che sembrava diventata il nuovo, luminoso e imprescindibile orizzonte della comune prosperità. Ma le cose sono andate e, soprattutto, stanno andando molto diversamente. La prova della pandemia ha messo in luce deficienze e debolezze vistose, tanto da far titolare al premio Nobel per l’economia Paul Krugman, sul «New York Times» di metà marzo: «Vaccini: un disastro molto europeo». Pasticci, ritardi, incertezze e chi più ne ha più ne metta, hanno caratterizzato la gestione della crisi, soprattutto in questa fase cruciale. E a parlare è un democratico, vicino a Obama e sincero ammiratore (almeno fino a ieri) dei sistemi sanitari europei. E il paradosso, in chiave svizzera, è che abbiamo fatto di tutto, in questi frangenti, per imitare e assimilare il metodo europeo. Noi che, grazie alla nostra posizione (ufficialmente) esterna all’UE e alle solide basi della nostra economia, avremmo potuto fare come Israele, o come la Gran Bretagna (guarda caso reduce dalla Brexit). Ma abbiamo preferito seguire altre strade, dimostrando (ahimè) di essere sempre più simili ai nostri vicini. O peggio, ai loro lati meno virtuosi. Il federalismo, da equilibratore, è così diventato soprattutto un ingranaggio macchinoso che rallenta le decisioni e evidenzia i contrasti; la concordanza si è espressa soprattutto nell’attendismo per evitare rischi (ma a che serve una guida politica se non per assumere, con ragionevole determinazione, anche qualche rischio?); le scelte sono state lasciate spesso a tecnici e burocrati, abituati a pensare settorialmente, a preoccuparsi di non esporsi troppo e a sfoderare articolate argomentazioni a giustif icazione di quanto detto, fatto e (soprattutto) non fatto. Quale differenza rimane, a questo punto, fra la Svizzera, un tempo fiera di sentirsi un Sonderfall (ma anche capace di esserlo), e i membri di un’Unione che non brilla né per unità, né per coerenza, men che meno per capacità di risolvere i problemi? A questo punto mi attendo la prevedibile obiezione di chi vede in questo discorso una contrapposizione nostalgica, in chiave anti-UE, fra il «mito» della Svizzera di un tempo e la situazione attuale. Innanzitutto va osservato che molti aspetti di quello che si vuole oggi descrivere come un «mito» sono dati di fatto. C’era effettivamente più attenzione, in passato, per la sicurezza collettiva dei propri concittadini, nella convinzione che il primo dovere dello Stato elvetico fosse di provvedere alle necessità degli Svizzeri (se non lui, chi altro?). E c’erano la volontà e la capacità di predisporre le migliori misure possibili per affrontare ogni evenienza. Non c’era la garanzia di riuscire sempre al meglio, ma se oggi ci chiediamo come siamo messi nella prospettiva della prossima emergenza, viene più che altro un brivido alla schiena.
Ma c’è dell’altro: avevamo (non secoli fa, ma solo qualche decennio or sono) una grande industria farmaceutica di punta. Se non è più così è per molte ragioni, alcune certamente indipendenti dalla nostra volontà. Ma che cosa è stato fatto per rimediare, o quanto meno per attenuare gli effetti di questo depauperamento del nostro tessuto industriale? Abbiamo pur sempre centri di ricerca prestigiosi, che potrebbero essere di grandissimo aiuto, se collegati a strutture produttive pensate in chiave strategica, per la sicurezza e il bene della popolazione svizzera. Ma è così? O ci siamo semplicemente accodati al trend generale, senza rif lettere sui rischi concreti? Non siamo i soli: i nostri vicini francesi hanno scoperto con orrore di non avere più strutture per produrre le componenti essenziali dei farmaci (non solo dei vaccini) perché oramai tutto arriva dalla Cina. Ora stanno cercando di rimediare, in un sussulto di orgoglio nazionale. Ma è dura. Come lo è per noi. La realtà è che queste trasformazioni - dalla qualità della classe politica alla incapacità di decidere, alla rinuncia a pensare in termini innanzitutto nazionali - sono in atto da tempo e non facili da correggere. Anche perché si alimentano alla convinzione, propagandata a tappeto, che in un’epoca di «problemi globali» la soluzione non possa che essere globale, o comunque (dalle nostre parti) continentale. È un concetto tutto da dimostrare, nelle sue implicazioni pratiche. Se per certi aspetti vale sicuramente, per molti altri la capacità di agire su dimensioni più contenute ma in maniera più rapida ed efficiente rimane essenziale. Il che non esclude certo la cooperazione internazionale (al contrario di quanto si tende ad affermare spesso, in modo semplicistico e tendenzioso). Ma se io sono capace di reagire con sollecita efficacia ad un problema sarò in grado di dare una mano agli altri. Se invece finisco col dipendere dall’inefficienza (o dal consenso) altrui per risolvere i miei problemi, è facile prevedere che ci troveremo tutti quanti accomunati: dai guai! Non vi ricorda nulla?
* opinionista