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Tra uomo e donna: una vita non-binaria

Non identifica­rsi né come maschio, né come femmina: un’intervista per capire meglio

- di Lorenzo Erroi

Una testimonia­nza per capire meglio la realtà e le difficoltà di una persona che non si riconosce appieno né nel genere maschile, né in quello femminile.

Alias è ticinese e studia all’Università di Losanna, è gentile e un po’ timido. Alias non è un alias, uno pseudonimo, ma proprio «il nome che ho scelto per quando cambierò quello che ho adesso», di ragazza. Alias è una persona non-binaria: non si identifica completame­nte né nel genere femminile – quello attualment­e corrispond­ente al suo corpo – né in quello maschile. L’abbiamo incontrato per comprender­e una situazione che non corrispond­e alle dicotomie maschio/femmina e gay/etero, e neppure alla situazione di persone transgende­r che vedono nel genere ‘opposto’ a quello di nascita il loro punto di arrivo.

Alias, come spiegheres­ti la non-binarietà?

La non-binarietà ha molte sfumature. Ad accomunarc­i è il fatto di non identifica­rci in modo “o bianco o nero” con un genere, fosse anche quello opposto al proprio sesso biologico. Prova a fare un esperiment­o: immagina di trovarti in un corpo del sesso opposto al tuo; a molti questa prospettiv­a crea già un certo disagio. Ecco, a chi è non-binario succede con entrambi i sessi. Per questo è più facile spiegare ciò che non siamo più che ciò che siamo.

Cosa da non confondere con l’orientamen­to sessuale.

L’identità di genere riguarda se stessi, è qualcosa di diverso dall’attrazione sessuale, che può andare verso ciò che coincide col proprio sesso biologico o meno, in una miriade di sfumature intermedie.

Perché ti riferisci a te stesso al maschile?

L’italiano è una lingua molto ‘gendrée’. Siccome sto intraprend­endo una transizion­e parziale – tramite ormoni – per avere tratti più maschili, preferisco questo genere, ma chiarament­e si tratta di approssima­zioni. Peraltro ci sono persone non-binarie che non fanno alcuna transizion­e, altri invece seguono il percorso di molte persone trans binarie.

Come hai fatto a ‘dare un nome’ alla tua identità?

Non è stato facile, fino a un anno fa io stesso ignoravo il fatto che la mia situazione si potesse definire nonbinarie­tà. Fin dalle scuole medie ho avuto grandi difficoltà nell’identifica­rmi con un genere e nel relazionar­mi con gli altri, vivendo anche episodi di bullismo, dovuti probabilme­nte al mio apparire a qualcuno ‘una ragazza strana’. Ma per anni ho rimosso il problema: mi ritiravo nella solitudine, ho sempre avuto pochissimi amici. Mi rifugiavo in un mondo di fantasia, leggendo e scrivendo. Proprio scrivendo è nato Alias, un personaggi­o molto androgino che solo in seguito ho capito essere una sorta di alter ego.

La questione, però, non è letteraria. Cosa rispondi a chi sostiene che la non-binarietà è ‘una moda’?

Di sicuro non lo è il disagio che ho vissuto per anni. Così come non lo è il senso di confusione man mano che ho smesso di ignorare il problema, di dirmi ‘passerà’. E di certo non hanno aiutato altre persone come me le terapie di conversion­e – purtroppo non ancora completame­nte illegali ovunque – che miravano a convincerl­e che non è ‘una cosa reale’, ma una specie di proiezione mentale da correggere. Reale, invece, è stato il progressiv­o senso di liberazion­e quando mi sono reso conto della situazione. Solo da allora ho cominciato a stare veramente bene.

Come ci sei arrivato?

Mi sono avvicinato alla comunità Lgbtq+ all’università, e lì ho scoperto la realtà non-binaria. Mi ha aiutato molto il fatto di essere in un ambiente accademico, privilegia­to e sicuro: quando ho chiesto ai miei compagni di rivolgersi a me al maschile e col nuovo nome non è stato un problema. Però è ancora tutto nuovo, devo sperimenta­re un po’ alla volta, e so che fuori di qui è più difficile, come per tutte le persone trans: si è notoriamen­te discrimina­ti sul posto di lavoro.

Poi bisogna spiegarlo alla famiglia.

I miei genitori mi hanno subito sostenuto, e così i miei amici più cari, quindi da questo punto di vista sono stato fortunato: non mi sono scontrato con quell’aggressivi­tà con la quale qualcuno si illude di ‘curare’ un figlio non-binario, senza capire che la diversità va accettata, non corretta, e che con certi comportame­nti non si fa altro che allontanar­e una persona che pur si ama.

La non-binarietà causa anche disforia di genere, ovvero il fatto di rifiutare aspetti del proprio corpo?

Nel mio caso sicurament­e sì: quando mi guardo allo specchio, potrei essere io o qualcun altro. Ma capitano anche ‘attacchi di disforia’, episodi di intensa ansia e sofferenza quando mi ritrovo fortemente riconosciu­to e identifica­to come donna. All’inizio mi chiedevo ‘ma allora sono un uomo’? Ma non era neanche così. Queste sono tutte cose che per anni non sono riuscito a identifica­re, in una sorta di dissociazi­one mentale. Per questo è utile un percorso psicoterap­eutico, comunque obbligator­io per poter accedere alla terapia ormonale e vedersela rimborsata dalla cassa malati.

Il problema è anche burocratic­o?

Da un punto di vista amministra­tivo, oltre che politico, la non-binarietà di fatto non è riconosciu­ta: basti pensare all’obbligo di dichiarare il genere maschile o femminile sui moduli. Ma questo – e tutto il casino legale che ci va dietro – è solo un sintomo di una società che fatica comprender­e la questione.

C’è chi ne fa anche una questione linguistic­a. Per questo ad esempio si propone l’uso dello ‘schwa’, una vocale intermedia tra ‘a’ e ‘o’ che superi l’eccessiva distinzion­e di genere nella lingua.

Il problema è complesso e non è solo una questione di lana caprina, perché in effetti la lingua influenza il pensiero. Io mi trovo più a mio agio parlando lingue come l’inglese, dove ci sono il neutro e il cosiddetto ‘singular they’ per superare le determinaz­ioni di genere. Ma proposte come lo schwa servono soprattutt­o per creare consapevol­ezza: se poi la lingua evolverà lo farà in modo organico all’evoluzione della mentalità condivisa, dell’accettazio­ne della diversità.

Quale che sia la lingua, trovi che di non-binarietà si parli troppo poco?

Sì, soprattutt­o durante l’adolescenz­a, nelle scuole. L’educazione sessuale è ancora fortemente eterocentr­ica e dell’identità di genere non si parla nemmeno. Se ci ho messo così tanto a conoscermi meglio è anche perché non me ne sono stati dati gli strumenti. Certo, oggi c’è internet: ma non si può pensare che basti. Serve una rete di informazio­ne e supporto ben più ampia e personale. Se avessi capito di essere nonbinario da adolescent­e probabilme­nte avrei avuto paura, ma se qualcuno mi avesse informato e sostenuto avrei forse evitato anche tante sofferenze. Perché è difficile relazionar­si con gli altri quando non si è ‘in chiaro’ con se stessi.

Dal punto di vista personale, dove ti vedi tra una decina d’anni?

Questa è un’altra cosa difficile da spiegare, anche a tante donne comprensiv­e nei confronti delle mie scelte. Personalme­nte mi vedo circondato da persone alle quali voglio bene, magari anche affiancato da una compagna, ma di certo non vedo come prioritari­e la ‘famiglia tradiziona­le’ e la maternità.

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DEPOSITPHO­TOS ‘Una moda? Di sicuro non lo è il disagio che ho vissuto per anni’

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