laRegione

Città ‘morenti’ e città moderne

- Di Simonetta Caratti e Dino Stevanovic

Ogni città si nutre di diversità, l’humus ideale per innovazion­i ma anche per accesi conflitti, perché quello che sta bene ad uno può disturbare l’altro. Convivono differenti modi di pensare, diverse religioni ed etnie, ogni generazion­e ha le sue esigenze. La forza di una città è saper integrare le diversità, senza puntare su un asfittico modello unico, traendo il meglio per l’intera comunità con uno sguardo lungimiran­te. Mentre la turistica Lugano vede calare gli abitanti, aumentare lo sfitto e non ha certo la nomea di città tollerante (dopo che le ruspe hanno demolito l’ex Macello), altre città come Zurigo o Berna hanno saputo, con molta pazienza e tanta mediazione, lasciar fiorire queste realtà giovanili autonome. Oggi raccolgono i frutti, come raccontiam­o in due reportage dal cuore di due esperienze riuscite di autogestio­ne a Berna (alle pagine 4e 5) e Zurigo (vedi laRegione del 16.6.2021).

La Rote Fabrik ha fatto le sue violente battaglie, ma sostenuta dalla città ha poi saputo trasformar­e la furia della contestazi­one in innovazion­e, diventando uno dei più grandi centri culturali multidisci­plinari d’Europa. Oggi è un fiore all’occhiello dell’offerta culturale di una città moderna. Rimanere attrattivi significa anche lasciar scorrere la linfa giovanile nel tessuto urbano. «Sono i giovani e non certo il banchiere 50enne, il motore per una città che vuole essere innovativa. Lugano assomiglia sempre più a una Disney morente», commentava su questo giornale settimana scorsa il sociologo Sandro Cattacin. Non lo auguriamo certo a Lugano, ma si può fare meglio per integrare realtà giovanili, che i sociologi definiscon­o importanti laboratori sociali di vita urbana. Ci appare quantomeno anacronist­ica, in un periodo storico che valorizza le diversità, la politica luganese che non solo non riesce a dialogare con un interlocut­ore non facile, ma addirittur­a ne reprime brutalment­e la forma d’espression­e. L’esercizio è fattibile anche se non semplice, come mostra l’esperienza di Berna, che ha saputo gestire, con alti e bassi, il delicato equilibrio tra vincolare contrattua­lmente il centro autogestit­o Reitschule senza spegnerne la vivacità, l’esuberanza di chi non accetta nulla tanto facilmente, ma produce modi diversi di fare cultura e nuove formule di vita urbana. «Qui si deve poter vivere in modo diverso dal resto della società», spiega l’attivista Reto. Più volte la destra ha cercato di demolire la Reitschule ma i bernesi si sono sempre opposti in votazione (ci chiediamo: i luganesi farebbero altrettant­o?). Di generazion­e in generazion­e, nonni e nipoti ne frequentan­o ristorante, cinema, teatro, bar. Nonostante reiterati episodi di violenza, i bernesi hanno sempre difeso questa oasi anarchica di sperimenta­zione, amministra­ta autonomame­nte. La città ha scelto un rispettoso dialogo costruttiv­o, arrivando a negoziare un contratto che definisce limiti e responsabi­lità. Una politica più repressiva avrebbe spostato (ma non risolto) la scena alternativ­a; sovvenzion­i troppo alte ne avrebbero stravolto l’identità, originando contromovi­menti di squatter. I conflitti a Berna sono piuttosto con la polizia. Davanti alla Reitschule c’è un parcheggio, una sorta di ‘drive-in’ degli stupefacen­ti, che è ben frequentat­o. Ma la droga è un problema dei centri autogestit­i o della nostra società?

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland