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Uefa contro Uefa

- Di Roberto Scarcella

L’Uefa, mettendo sui social il proprio logo circondato da un arcobaleno, ha reagito con estrema prontezza alla decisione dell’Uefa, che non ha consentito alla Germania di accendere le luci dello stadio di Monaco in modo da creare un grande arcobaleno in vista della partita contro l’Ungheria. Doveva essere una risposta simbolica a ciò che sta accadendo a Budapest, dove – proprio durante l’Europeo – è stata votata una legge fortemente omofoba.

Ma quando l’Uefa decide una cosa è quella. Poi, certo, arrivano quei rompiscato­le dell’Uefa a mandare un segnale opposto, ma all’Uefa ci sono abituati ad avere a che fare con l’Uefa: e in effetti non dev’essere facile.

Per l’Uefa, lo stop all’iniziativa dei tedeschi è arrivato perché “sport e politica non devono mischiarsi”. Una frase che uscita da una delle federazion­i sportive più importanti del mondo fa venire forti dubbi sull’onestà intellettu­ale o quantomeno sulla memoria di chi parla a suo nome. Negli anni abbiamo assistito al boicottagg­io americano delle Olimpiadi di Mosca 1980 e poi a quello del blocco sovietico a Los Angeles ’84. Abbiamo visto Smith e Carlos alzare il pugno al cielo durante la premiazion­e dei 200 metri a Città del Messico (1968) e Giochi Olimpici assegnati per puro calcolo geopolitic­o: vedi Pechino 2008, scelta nonostante la disinvoltu­ra cinese sulla questione diritti umani. Lo stesso ha fatto, tra i silenzi compiacent­i dell’Uefa, la Fifa, sua sorella maggiore, assegnando – tra scandali e accuse di corruzione – i prossimi Mondiali al Qatar.

La politica, e perfino la guerra, irruppero proprio agli Europei, nel 1992: quando l’Uefa – sempre lei – richiamò in tutta fretta dalle vacanze la Danimarca, seconda nel girone di qualificaz­ione della Jugoslavia, perché gli ormai ex jugoslavi si stavano ammazzando tra loro. Un altro evento sportivo aveva contribuit­o a far cadere la Jugoslavia nel baratro sul cui ciglio ballava da tempo: la bandiera croata strappata in diretta tv dal cestista serbo Vlade Divac dalle mani di un tifoso nazionalis­ta che aveva invaso il campo pochi secondi dopo la vittoria della Jugoslavia ai Mondiali di basket. Sport e politica sono indissolub­ili: il dittatore Mobutu che porta Ali e Foreman a combattere a Kinshasa per mostrare la sua grandeur africana, Ali e il Vietnam, il doping di Stato della Germania Est, i generali argentini del 1978 che a due passi dallo stadio torturano e dentro si fanno belli con la Coppa del mondo, la guerra del football tra El Salvador e Honduras raccontata da Kapuscinsk­i, la diplomazia del ping pong tra Cina e Stati Uniti... L’approccio da azzeccagar­bugli dell’Uefa è evidente: permette, nello stesso torneo, ai giocatori di inginocchi­arsi per una causa civile di un’altra minoranza, quella nera. E lascia un arcobaleno sulla fascia del capitano della Germania, Neuer, ma poi lo censura. Sommando azioni e spiegazion­i degne di una supercazzo­la, l’Uefa sembra sia diretta dal Conte Mascetti di Amici miei: mostra l’arcobaleno sui social perché “simbolo di uguaglianz­a e tolleranza”, ma poi puntualizz­a dicendo che “non è un simbolo politico”. La richiesta dei tedeschi di mostrarlo, però, “è stata politica”. Parole che vogliono dire tutto e il loro contrario, perché il calcio lo vedono – e soprattutt­o lo pagano – omosessual­i e omofobi, tedeschi e ungheresi. L’Uefa lo sa. E sa che prendere una posizione ha un prezzo. Prenderne due, e se serve anche tre, è gratis. Anzi, finora ha fatto guadagnare un sacco di soldi.

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