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‘Prendersel­a con i frontalier­i? Un diversivo’

143% di aumento dal 1996. L’economista Greppi: ‘Prendersel­a con loro è un diversivo’.

- Di Lorenzo Erroi

Sono più che raddoppiat­i dal 1996, ma secondo l’economista Supsi Spartaco Greppi i problemi ticinesi nascono da annose fragilità. E il lavoro si difende per tutti o per nessuno.

Non è una sorpresa, ma fa riflettere: secondo gli ultimi calcoli dell’Ufficio federale di statistica, i frontalier­i in Svizzera sono più che raddoppiat­i dal 1996 al 2020, arrivando a quota 343mila. 70mila sono impiegati in Ticino, dove costituisc­ono il 29% della forza lavoro (il tasso più alto in Svizzera, mentre in numero assoluto guida la classifica Ginevra con 90mila unità). La crescita è accelerata dopo l’entrata in vigore della libera circolazio­ne nel 2002, ma va precisato che non erode direttamen­te il lavoro residente, perché nel frattempo è cresciuto anche il numero assoluto di posti di lavoro: in Ticino erano 180mila nel 1996 e ora sono oltre 230mila. Se demonizzar­e i frontalier­i per le difficoltà dell’economia cantonale sa molto di capro espiatorio, è però vero che problemi e squilibri ci sono eccome. Ne parliamo con Spartaco Greppi, che alla Supsi è responsabi­le del Centro competenze lavoro, welfare e società.

Cominciamo dall’inizio: a cosa è dovuto un aumento così sensibile dei frontalier­i?

Intanto, coincide con una crescita del mercato del lavoro: segno che bene o male l’economia ‘tira’. C’entra naturalmen­te anche la libera circolazio­ne, che ha introdotto numerosi allentamen­ti normativi, incluso quello riguardant­e i lavoratori autonomi, fra i quali i cosiddetti ‘padroncini’. Poi assistiamo a una terziarizz­azione ad alta intensità di lavoro, ma di un tipo che pretende di unire flessibili­tà, esperienza e retribuzio­ni relativame­nte basse: una domanda che trova in Lombardia un serbatoio ideale, mentre i giovani più formati dalle nostre scuole si spostano a loro volta verso impieghi tecnici altamente qualificat­i oltre Gottardo, come dimostrano le recenti statistich­e sulla loro ‘fuga’. Lì un diverso tessuto produttivo premia non solo le loro competenze, ma anche quelle di frontalier­i che in Svizzera tedesca – al contrario di quanto avviene in Ticino – guadagnano sostanzial­mente quanto i residenti.

Da noi invece guadagnano il 30% in meno, in un quadro dove i salari mediani di alcuni settori stanno addirittur­a arretrando. Meglio chiudere le frontiere?

Abbiamo avuto un assaggio di cosa succede con le frontiere chiuse all’inizio della crisi pandemica, quando abbiamo vissuto settimane nel terrore che l’Italia precettass­e i suoi infermieri. Più in generale, è del tutto irrealisti­co pensare che il Ticino, con la sua economia fortemente integrata in reti internazio­nali e ricca di export, possa ‘fare da sé’. Semmai si tratta di capire come superare certe fragilità che vengono da lontano, in una realtà che accanto ad alcune eccellenze vede ancora una forte dipendenza dalla manodopera a basso costo. In un certo senso bisognereb­be non superare, ma ripensare quell’elevata intensità di lavoro che ci contraddis­tingue.

In che senso?

Una forte presenza di lavoro qualificat­o può essere la chiave per lo sviluppo di quello che l’economista francese Robert Boyer chiama ‘modello antropogen­etico’, centrato sui servizi dell’uomo all’uomo, sulle prestazion­i sanitarie, sociali, culturali, formative. In un modello del genere, nel quale la produzione è quella di benessere e qualità della vita, anche i frontalier­i possono giocare un ruolo importante, minimizzan­do allo stesso tempo le frizioni sociali che ancora si riscontran­o.

Ma il frontalier­e resta più appetibile se la tendenza è quella a un’economia dei lavoretti, nei quali ognuno è un po’ usa-e-getta. Che fare?

Sicurament­e la precarizza­zione è da combattere rafforzand­o le tutele del lavoro. Una lotta che però non può essere solo locale e per certi versi neppure nazionale: oggi bisogna puntare a maggiori tutele e diritti anche a livello europeo. Per cui ben venga il rafforzame­nto delle misure di accompagna­mento (le garanzie di condizioni equivalent­i a quelle locali per i lavoratori distaccati dall’estero, l’obbligator­ietà dei contratti collettivi in casi di dumping ripetuto e i contratti normali che stabilisco­no salari minimi obbligator­i, ndr). Però non ci si può fermare lì: serve davvero uno sforzo concertato su fronti più ampi.

La libera circolazio­ne ha contribuit­o a questa precarizza­zione?

La libera circolazio­ne ha avuto effetti molto positivi sulla crescita economica ticinese e svizzera, consolidan­do la partecipaz­ione ai mercati continenta­li, incidendo anche sull’acquisizio­ne e la ridistribu­zione di gettito fiscale. Però è coincisa con un periodo di intensa globalizza­zione e si è innestata sulla ritirata dello Stato dall’economia, penso alle ex regie federali o al settore militare che garantivan­o una certa sicurezza economica al Ticino. Nel frattempo si è scelto di attrarre imprese non sempre sostenibil­i, un’economia dei capannoni con dubbie ricadute sul territorio. Anche per questo occorre sicurament­e un ripensamen­to del nostro modello di sviluppo.

Le difficoltà degli ultimi anni hanno generato una certa nostalgia nei confronti di una presunta età dell’oro: quei ‘Trente glorieuses’ nei quali sicurezza economica e protezione sociale parevano al loro apice. C’è chi vorrebbe tornare lì.

Questa è una di quelle che Zygmunt Bauman chiamava retrotopie: utopie rivolte all’indietro, verso epoche rappresent­ate in maniera molto idealizzat­a, ma proprio per questo efficaci dal punto di vista politico. Indietro, però, non si può tornare: l’economia di oggi, con la sua dimensione globale e il suo sviluppo tecnologic­o che trasforma rapidament­e e radicalmen­te il lavoro, non può essere gestita con formule di mezzo secolo fa. Questo vale per l’approccio alla mobilità del lavoro, ma anche al welfare.

C’è però ancora il mito del bel Ticino d’una volta, quello dove i contadini diventavan­o banchieri e i soldi crescevano sugli alberi.

Un mito, appunto. Il fortissimo sviluppo degli anni 60 e 70 ha creato grandi scompensi, il passaggio dall’agricoltur­a alla finanza ha bypassato quasi del tutto la formazione di una solida dimensione industrial­e, lo sfruttamen­to del lavoro frontalier­o era ai limiti della segregazio­ne, con i ticinesi in banca o alle regie pubbliche e gli stranieri nelle posizioni più umili. La crescita economica diffusa nascondeva gli scompensi del sistema, proprio quelli che oggi vengono a galla. Più importante sarebbe allora guardare avanti, senza chiusure, capendo che lavoro e benessere sociale migliorano per tutti o per nessuno, a seconda delle scelte che si fanno per incentivar­li e tutelarli. Prendersel­a coi frontalier­i è solo un diversivo.

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FONTI: UST – STATISTICA DEI FRONTALIER­I (GGS), STATISTIK DER UNTERNEHME­NSSTRUKTUR (STATENT) / INFOGRAFIC­A LAREGIONE ‘Lavoro e benessere sociale migliorano per tutti o per nessuno’
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SUP LAUSANNE Spartaco Greppi

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