L’oleodotto non s’ha da fare (e la miniera?)
“Speriamo che stavolta il progetto sia davvero morto”. Fosse per lui, Randy Thompson avrebbe seppellito volentieri quel progetto sotto la neve che stava spalando con un piccolo Caterpillar, appena fuori Lincoln, la capitale del Nebraska. Era fine gennaio. Pochi giorni prima, al momento del suo insediamento Joe Biden aveva fatto scorrere inchiostro nero invece di oro nero. Una firma per bloccare le condutture. E impedire il passaggio del greggio bituminoso dal Canada al Golfo del Messico attraverso il “Keystone XL” , una pipeline di oltre 4mila chilometri in costruzione anche sotto il ranch di Randy, in Nebraska. Anni fa questo allevatore 73enne – diventato uno dei volti noti della battaglia contro l’oleodotto – rifiutò di cedere le sue terre alla società Transcanada per costruire quelle tubature. “Il rischio di inquinare le nostre fonti d’acqua ha sempre superato qualsiasi beneficio”, mi disse Randy, mentre i suoi stivali di cuoio affondavano in 30 centimetri di coltre fresca accanto al recinto con due cavalli pezzati. Dall’avvio dei lavori di questa infrastruttura petrolifera 13 anni fa – sostiene – è in corso “una partita di football politico”: favorevoli i repubblicani, contrari i democratici”. Che dopo Obama, con Biden hanno bloccato per la seconda volta l’oleodotto. Sotto la neve delle stalle di Randy coperte dalla coltre, il neo-eletto presidente democratico aveva subito congelato permessi e speranze. Dieci giorni fa, la società canadese TC Energy ha definitivamente rinunciato al ‘Keystone’, uno dei progetti più contestati degli ultimi decenni qui in America.