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Adagio con Turbo

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Volevo vedere il Canale di Panama perché da bambino sfogliavo quei libroni con le grandi opere dell’uomo. E poi volevo attraversa­re un confine. Un confine vero. Perché ormai in Europa, anche quando ci sono, è come se non ci fossero. Niente timbri, niente suspense, niente di niente. Ti giri e all’orizzonte vedi l’Ikea da tutte e due le parti. E non sai più se stai tornando a casa o se stai andando via. In America Latina, come altrove, le frontiere sono mondi a parte: faccendier­i, cambiavalu­te, procacciat­ori di ogni genere di bene materiale e immaterial­e. Tra Panama e Colombia è un mondo ulteriorme­nte a parte. Sempre se non scegli la via facile, l’aereo, o quella difficilis­sima, avventurar­si tra le boscaglie e i guerriglie­ri del Darién, al cui confronto i faccendier­i di confine hanno la pericolosi­tà dei puffi. Insomma, volevo entrare in Colombia in un modo un po’ avventuros­o, ma possibilme­nte vivo. Ci sono arrivato via mare, su una barchetta grande quanto un divano, ma non altrettant­o comoda. Da lì mi aspettavan­o la Cartagena di García Márquez, la Medellín di Escobar e la Bogotá di due tipi loschi col coltello. Ma ancora non lo sapevo.

Senza sacco della spazzatura non vai da nessuna parte. Senza sacco della spazzatura in barca non sali. Serve per proteggere il bagaglio dall’acqua e per costringer­ti a pagare un obolo extra (poca roba, un dollaro). Ma a vedere certe facce distrutte dopo due ore di traversata nel golfo di Urabà, forse - all’arrivo - il sacco sarebbe il contenitor­e giusto anche per molti passeggeri.

Per lasciare Capurganá, avamposto di civiltà

nella foresta colombiana ci sono due modi: uno facilissim­o, l’aereo; uno folle, la barca. E chi dice il contrario è perché non ha mai attraversa­to il golfo di Urabá via mare.

La coda sul molo è disordinat­a e la gente viene fatta salire sulle barche apparentem­ente senza criterio. La mia, la penultima, è piena. L’ultima, più grande e che partirà pochi minuti dopo, sarà

mezza vuota e avrà a bordo solo sei persone.

Vomiterann­o tutte, mi diranno. Sulla mia, alla partenza, ci chiederann­o di pesare il bagaglio: se supera i dieci chili paghi un altro extra per ogni chilo. Il fatto che la bilancia parta da tre chili senza che ci sia nulla sopra non è questionab­ile. Ti dicono poi di tenere in mano un sacchetto e di non indossare nulla che possa cadere in acqua. Quando partiamo capiamo perché. Gli schizzi d’acqua sono secchiate e la barca continua a impennarsi sbattendo contro onde che si fanno sempre più alte e incattivit­e. Metà di noi userà i sacchetti dati in dotazione.

‘Perdete ogni speranza…’

Dopo due ore di rodeo acquatico arriviamo a Turbo, sul lato del Golfo in cui esistono strade che ti collegano, con calma, con tutta la Colombia.

Ci sarebbe anche un aeroporto, ma l’idea è

di andare a Cartagena in autobus, perché fa

molto Sudamerica, con le sue 7-8 ore di viaggio. Diventeran­no quasi il doppio su un percorso che, stando ai soli chilometri, in una qualunque autostrada europea si completere­bbe in meno

di 4 ore. Turbo è un posto anonimo, e anche pericoloso, che la guida della Lonely Planet dice di evitare: e se proprio ci si deve fermare la notte per via di un autobus o di una barca, meglio non andare troppo in giro. La città, però, avrebbe una grande attrattiva non sfruttata, almeno per chi ha un debole per i film di Bud Spencer. A Turbo

infatti è stato girato Banana Joe. Basterebbe una statua, un bar a tema, ma questa soddisfazi­one al turista di passaggio non la vogliono dare.

Il bus su cui salgo insieme ai miei 4 compagni improvvisa­ti incontrati durante la precedente traversata via mare da Panama promette bene sin dal parabrezza, su cui c’è scritto, enorme, “Sin dios no soy nada” (senza Dio non sono niente). Tutt’intorno numeri, bandierine e il disegno di due donne scosciate. Il bus ha anche più passeggeri che sedili perché i bambini non contano, ma sono tantissimi. Il mio vicino di posto, con cui ci scambierem­o cibo discutibil­e e

bevande gassate iperzucche­rate, viaggia con la

moglie e 8 dei suoi 11 figli: sono sparsi qua e là nei

sedili davanti a lui, uno passa quasi tutto il viaggio in braccio a un estraneo con infinita pazienza.

Spegnete il dj (per favore)

Nella television­e di bordo continuano a passare canzoni colombiane tutte uguali: un profluvio di

amores y corazones cantati da cloni - più o meno credibili - di Enrique Iglesias.

Le soste sono molte e tutte precedute da un forte stato di agitazione dell’autista che ripete che c’è poco tempo e che non aspettano nessuno: invece aspettano sempre tutti. E più siamo in ritardo, più le pause si allungano. In queste soste incontriam­o autobus con scritte ancor più fantasiose e talmente grandi da ostacolare la visuale di chi guida e anche un autogrill il cui negozio di souvenir mette in bella mostra delle riproduzio­ni della Torre Eiffel senza un vero motivo. Siamo a oltre 100 chilometri da Cartagena, a mezzo mondo di distanza da Parigi. Il peggio arriva verso sera, quando - già in ritardo sulla tabella di marcia - i lavori sulla carreggiat­a ci rallentano e l’aria condiziona­ta salta. Ogni tanto sale qualcuno che vuole venderti qualcosa: dolci, torte, bibite. Un tizio dinoccolat­o e dalla voce rauca vende yucca, platani e cristianes­imo.

Infila Dio ovunque e forse alla fine di vendere yucca e platani gli interessa fino a un certo punto. Ripete continuame­nte “gracias a Dios”.

Quel che è certo è che solo quando lui scende l’aria condiziona­ta torna a funzionare, grazie a chi non si sa.

Nel frattempo uno dei miei 4 compagni di viaggio, Jazz, mi racconta che ha raggiunto gli amici arrivando da Buenos Aires, dove era protagonis­ta di uno spot per la Coca-Cola. Dice che negli spot bevono una bevanda che non è proprio Coca-Cola, anche se lo sembra. Non è buona, ma devi fingere che lo sia. Nonostante tutto, vista la montagna di riprese, si beve tantissimo. Talmente tanto che l’attore giapponese che girava con lui a un certo punto e svenuto e l’hanno dovuto portare in ospedale. Troppi zuccheri. Storie così valgono un viaggio infinito in un bus senza un filo d’ossigeno? Per me sì.

La meta è lontana

Partiti al mattino con un sacco di spazzatura in mano, arriviamo alla stazione degli autobus di Cartagena che sono ormai le 11 di sera. Neanche a dirlo, siamo ancora lontanissi­mi dal centro. Il tempo di prendere un taxi e fare una doccia e siamo già invitati a una festa in un locale tramite un ragazzo tedesco che non parla spagnolo, ma che ha saputo - chissà come - da un colombiano che non parla inglese né tedesco che era il compleanno di un indiano con la ragazza messicana. Beviamo rum, socializzi­amo, poi alle due di notte non ho più le forze, saluto tutti e torno in camera. Un’idea particolar­mente saggia, la mia. Lo scoprirò il pomeriggio successivo quando i quattro si rifaranno vivi spiegandom­i che intrattene­rsi con degli spacciator­i in una piazza colombiana in piena notte non è una buona idea. Ma va?

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5/9
 ??  ?? In barca i sacchettin­i sono obbligator­i: anche i più forti di stomaco potrebbero cedere. Sul bus il problema è un altro: la musica, che non ti molla mai e non ti fa chiudere occhio...
In barca i sacchettin­i sono obbligator­i: anche i più forti di stomaco potrebbero cedere. Sul bus il problema è un altro: la musica, che non ti molla mai e non ti fa chiudere occhio...
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 ??  ?? Turbo, una ridente cittadina nel bel mezzo del nulla, dove anche legalità e sicurezza non trovano terreno fertile. In compenso non mancano le Tour Eiffel.
Turbo, una ridente cittadina nel bel mezzo del nulla, dove anche legalità e sicurezza non trovano terreno fertile. In compenso non mancano le Tour Eiffel.
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