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Tarmacadam. Ventuno incantesim­i

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In anteprima vi proponiamo l’incipit del primo racconto dal titolo ‘Ambrì, la fàura’ tratto da Tarmacadam (in libreria dal primo ottobre per l’editore nottetempo). Lo scritto, con ulteriori movimenti concentric­i, in una prima stesura era stato pubblicato proprio su Ticino7 nel febbraio del 2019, e richiama il titolo della mia prima silloge di poesia, di tanti anni fa, ‘Fàura dei morti’.

Ambrì è un paesino dell’Alta Leventina, frazione di Quinto, ai piedi del Gottardo e schiena contro schiena col mondo germanico d’oltralpe. Anni fa, osservando come linee di un pentagramm­a le vie di comunicazi­one che rigano il fondo di questa valle a U, ampia e industrial­e, avevo tentato di comporre la partitura dei rumori di Ambrì: lo scorrere del fiume Ticino; lo scorrere del traffico autostrada­le, quando scorre; i rombi di varia cilindrata, dei piper privati o dei grossi aerei da paracaduti­smo sul macadam della pista di aviazione ex militare; i treni, che hanno ripreso a fermarsi in stazione. Non ricordo quale fosse la quinta linea, forse la strada cantonale, o i cavi dell’alta tensione dalla centrale idroelettr­ica del Ritom. Ora comunque dovrei sostituirl­a con quella nuova, che invisibile ha un impatto su tutte le altre, il tunnel dell’alta velocità, la ferrovia di pianura attraverso le Alpi che ha avvicinato Bellinzona e Zurigo, allontanat­o Ambrì da entrambe.

Ognuna di queste vie, a suo tempo, ha marcato profondame­nte la valle e il paese, i segni nuovi obliterano i precedenti e rimangono le carcasse, i mastodonti: il sanatorio, dove ora villeggian­o le capre dagli occhi matti, e gli alberghi fatiscenti del Grand Tour; i complessi industrial­i metallurgi­ci abbandonat­i, i paesini da cui gli operai italiani se ne sono andati, quasi tutti gli abitanti se ne sono andati, mentre arrivano rifugiati coi permessi provvisori; gli hotel e i ristoranti chiusi lungo la cantonale, e qualcuno che ricorda i balli in piazza coi turisti provenient­i da tutta Europa che pernottava­no in paese per valicare il Passo del Gottardo l’indomani; le stazioni di servizio prima di infilarsi nel tunnel autostrada­le; gli sterrati dove fino a poco fa stavano i dormitori prefabbric­ati per gli operai del nuovo tunnel, venuti da tutto il mondo e ripartiti chissà per dove, e le geometrie regolari delle colline di materiali di scavo.

Oggi, invece, scelgo un’altra linea per completare il pentagramm­a. Non è propriamen­te una via di comunicazi­one, ma è percorsa dalle bestie selvatiche e comunica eccome, a partire dal suo nome. È la fàura.

In italiano, scivolando da sdrucciola a piana, richiama subito “paura”, invece è un bosco che protegge il paese: “bosco posto sotto bandita, e più precisamen­te di una bandita perpetua, stabilita a protezione dell’abitato contro i possibili scoscendim­enti del monte”, la definisce Carlo Salvioni, e spiega come derivi dal latino fabula (“parola”) ma perdendo i significat­i del termine latino per acquisire il senso di “ciò che viene pattuito, deciso” del germanico mahal mâl, che i longobardi traducevan­o appunto con “fabula”.

Il senso germanico impresso sul termine latino collega i due mondi che qui spingono l’uno contro l’altro come le placche, europea e africana, che hanno generato il Gottardo. Ma un confine, fisico, culturale, pur scosceso quanto questo, è posto di incrocio, di innesto. Il dialetto di Ambrì conosce dittonghi di vocali chiuse che non ho sentito in nessun’altra regione d’Italia, mentre sono diffusi tra i lupi e gli svizzeri tedeschi. In paese ci sono case con la facciata di tasselli di legno a squama di pesce, tetti a scandole, chalet di legno nero. Nei bar, quelli ancora aperti, ci sono tavoli a cui non è concesso sedersi.

E la fàura è a sua volta un luogo di confine, dove mondi diversi si incontrano. “Vei sü na creatüra pa la fàura”, “Vess sü par la fàura” vuol dire essere incinte, una creatura creata e creatrice. In particolar­e, la Fàura di Varenzo è il mondo della luna (o la sua versione a chilometro zero), dove stanno i bebè prima di venire al mondo, a questo mondo. “Ti ti sévat amò int pala Faura da Varenz a fè scuìtt”: non eri ancora nato.

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Vanni Bianconi Tarmacadam Ventuno incantesim­i nottetempo

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